Le Farfalle Volano a Teatro


Il Teatro Comunale è uno spazio allegramente scombinato che gioca a fare il grande. E grande lo è diventato davvero, grazie al lavoro dell’Associazione Tra il Dire e il Fare e alla Compagnia La Luna nel Letto, che l’hanno fortemente voluto e lo gestiscono ormai da quasi sei anni.

Un piccolo gioiello che a maggio rimarrà senza la copertura finanziaria regionale (programma Teatri Abitati). Ci pensi, presidente Vendola. E ci penseranno (ne siamo certi) anche il Sindaco e l’Assessore alla Cultura. E’ un patrimonio che non possiamo perdere, soprattutto qui, nella steppa culturale, se non a volte nel deserto. Semmai è un patrimonio da potenziare.



La piéce, originale, si chiama Le farfalle non vivono nei ghetti.

Arrivo alle 18.30 non con lo spirito del giornalista ma con quello più comune del genitore. Mia figlia è tra i quarantaquattro bambini del modulo E-F di quinta classe della Scuola Elementare “Bovio”, coordinato dalle insegnanti Isa Cantatore, Gina Ciliberti e Vittoria De Astis.

Un modulo collaudato e di sicura fiducia, da cui mi aspetto un lavoro didatticamente valido, senza molto pretendere sul piano dello spettacolo o della performance. Insomma, il classico (e ben fatto) lavoro “scolastico”.

Non sono perciò minimamente preparato a quanto sta realmente per succedere.

Via il sipario, una sorprendente Isa Cantatore – che così fa il grande salto e passa dalla cabina di regia al palco in veste di Disc Jockey di una radio molto speciale. Una radio dell’anima e della Memoria che, nel Paese che ha dimenticato tutto, ha ancora il vizio di ricordare, di voler capire e di comunicare.

E da lì parte uno spettacolo frizzante, profondo quanto basta e con un tocco di lievità che lo rende più ricco e più fruibile. Fatte le dovute proporzioni e differenze, lo stile è un po’ quello de La Vita è Bella di Benigni. Il tema è ovviamente l’Olocausto. Ma la scelta è di contaminare questa tematica dolorosa con le altre affini al grande tema dell’Esclusione, di cui la Persecuzione è la tragica conseguenza.

Così l’Immigrazione, in tutte le sue forme, con le relative problematiche di integrazione complicata, o di repressione e lagerizzazione in chiave contemporanea e di attualità.

Lettura di brani, ovviamente, sia dal disc-jockey che dai bambini, il cui tocco come sempre ha l’effetto magico di sdrammatizzare senza banalizzare; senza togliere ma aggiungendo spessore, trasformando la peggiore delle tragedie in un messaggio di speranza.

Così i bambini, tutti rigorosamente a piedi nudi (gli esseri indifesi per definizione) sfilano ad uno ad uno con sulla maglietta bianca la scritta, il “marchio” della loro (supposta) diversità, e quindi il passaporto per la discriminazione. I nostri figli sfilano con la scritta marocchino, arabo, indiano, ebreobulgaro e chi più ne ha…

E la platea esplode in un applauso sorridente quando il bambino di origine bulgara, oggi perfettamente integrato e amato da compagni e maestre, fa la sua passerella con la scritta Italiano. Un’ironia allegra e sottile, che il pubblico mostra di gradire decisamente.

Per i bambini e per tutti noi una salutare iniezione di socialità, un vaccino contro ogni discriminazione, che andrà richiamato ogni tanto ma che rende (speriamo) più difficile che qualcuno dei nostri ragazzi cada nella deriva esistenziale della frustrazione e del razzismo che ne deriva.

L’espediente della radio-dj consente di alternare i più vari (anche se ovviamente in tema) contenuti, e per così dire di spaziare nelle diverse regioni del dolore storico e sociale.

Molti i brani “classici” dell’Olocausto, a partire da Anna Frank. Ma anche molta Memoria collettiva, spesso sorprendente come il lungo j’accuse contro gli immigrati incomprensibili, sporchi e puzzolenti.

 “Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano anche perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno e alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri…” (vedi testo più completo a fondo pagina).

Una cosa che pare scritta oggi, magari per Lampedusa o per i tanti disumani “centri di accoglienza” sparsi per la Penisola; e invece è stata scritta nel 1912 da una Commissione del Congresso americano. E gli immigrati descritti così impietosamente eravamo anche noi, italiani o europei, accomunati agli altri popoli del mondo da un identico copione di tragedia.

Ma questo schema storico-sociale-dialettico-narrativo rende solo in parte l’atmosfera che si è respirata al Teatro comunale. Con una struttura rappresentativa letteralmente piena di piccole e grandi invenzioni, ottenute con niente (delle sedioline gialle, un rotolo di carta da cucina, piante, rottami) ma di grande effetto scenico. Con le luci mixate sapientemente dall’altro dj, invisibile, Michelangelo Campanale.

I frequenti cambi di scena, le invenzioni continue, il ritmo incalzante, quasi televisivo e l’incredibile presenza scenica dei bambini – siano le doti naturali, sia il lavoro svolto da Katia e Mariastella – hanno fatto il resto e hanno costruito una magia davvero unica.

Ne siamo usciti piacevolmente sconvolti. Più innamorati (se possibile) dei nostri bambini. Più legati (se possibile) al Teatro e a questo bellissimo Teatro scombinato. E probabilmente più consapevoli di quanto la didattica abbia bisogno di immergersi più frequentemente in forme innovative di comunicazione, dentro e fuori le pareti scolastiche.

La performance è stata di assoluto rilievo. Si pensa di mandarla a un concorso nazionale a maggio, a Salerno. Le resistenze ci sono, ma sarebbe una grandissima opportunità per questi bambini, per la Scuola e per la collettività, oltre che per lo stesso Teatro.

L’Assessore alla Cultura, Pasquale de Palo, era presente e, con la sua sensibilità, ha sicuramente preso nota.

Noi faremo senza dubbio la nostra parte. L’invito è a provarci. E chissà che a maggio non potremo festeggiare la vittoria in un concorso nazionale e il rinnovo della copertura finanziaria a un Teatro e a dei professionisti che hanno dimostrato negli anni di poter fare il miracolo.

Di poter fare cultura nella steppa. A volte nel deserto. Di poter far volare – almeno a Teatro – le farfalle che non hanno potuto partecipare alla Primavera della Storia.

mario albrizio

 

 
 
 
 
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. 
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. 
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. 
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. 
Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. 
I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali…
Si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare.Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano purché le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia.Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.