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È sabato. Un bel Travaglio e uno sguardo sull’Italia, ahinoi, “ci sta”. :)(


Parliamoci chiaro, senza tante pippe per il giustizialismo, il garantismo, la privacy e altri concetti molto seri che qui c’entrano come i cavoli a merenda. L’unico metro per misurare la carica di innovazione sbandierata da Renzi è quello della giustizia: qui, dopo vent’anni di inciuci che hanno prodotto oltre cento fra leggi e riforme, tutte regolarmente nella direzione di paralizzare i processi, agevolare le prescrizioni e salvare i colpevoli eccellenti, si parrà la sua nobilitate rottamatoria. Il premier aveva cominciato bene, scegliendo il pm Gratteri come ministro della Giustizia. Poi Napolitano, imbalsamatore imbalsamato dell’Ancien Régime, gli ha depennato quel nome con una scusa patetica (i magistrati non possono fare i ministri della Giustizia, i delinquenti e i loro compari invece sì). E Renzi s’è subito genuflesso, nominando il povero Orlando.

Risultato: in sei mesi abbiamo avuto la legge svuotacarceri (la terza in tre anni, quella che lascia liberi tutti gli spacciatori e non solo quelli), la riforma del voto di scambio politico-mafioso (che l’altroieri ha regalato a un politico siciliano Udc l’annullamento della sua condanna a 6 anni per aver comprato voti da un boss) e ieri la rivoluzionaria, epocale Riforma della Giustizia. Ricordate la conferenza stampa di fine luglio, con le 12 linee guida, le slide sberluccicanti e l’invito del premier “Scriveteci le vostre idee a [email protected]”?

Ecco, devono avergli scritto B., Verdini, Dell’Utri, Alfano e Schifani. Infatti ieri il premier col gelato ha annunciato un bavaglino sulle intercettazioni per avvocati, giornalisti e cittadini. Quanto alla prescrizione, che falcidia dai 100-150 mila processi all’anno e l’Europa ci chiede di bloccare al momento del rinvio a giudizio come in tutti i paesi civili, è tutto un faremo, vedremo, delegheremo: zero assoluto. Così come su falso in bilancio, frode fiscale, autoriciclaggio e anticorruzione. Dare la colpa a Berlusconi o Alfano è giusto, ma riduttivo: Renzi, quando vuole, fa come gli pare (ne sanno qualcosa i suoi ministri, Giannini in primis). 


La boiata di ieri porta dunque il suo nome e la sua responsabilità. Diciamola tutta, allora, fuori dai denti: la rottamazione, la rivoluzione, l’innovazione sono annunci vuoti, promesse vane, parole al vento. Il bulletto di Rignano s’è messo prontamente a cuccia e protegge come i suoi predecessori una classe dirigente che campa sulle prescrizioni (senza, sarebbe decimata dalle retate), sugli scambi e le trattative con le mafie, sui bilanci falsi, sulle frodi fiscali e sulla speranza di non essere intercettata (o, nel caso lo fosse, almeno di non finire sputtanata sui giornali). 

Una riforma della giustizia che non limiti le intercettazioni e la loro conoscibilità, non intimidisca i magistrati, ma anzi li aiuti a scoprire corruzioni, voti di scambio, falsi in bilancio e frodi fiscali sarebbe cannibalismo puro. 

Renzi ha fatto la sua scelta, premeditata. Non ha ceduto a un diktat di B. o di Alfano. Continua a fare accordi con B. e Alfano perché la pensa come loro. È ora di prenderne atto, onde evitare future sorprese, delusioni e prese in giro

Ricordate il nuovo reato di voto di scambio (416 ter Codice penale) approvato in Senato il 16 aprile dopo tre passaggi parlamentari? È la prova della premeditazione. Mentre il Fatto, alcuni magistrati (Di Matteo, Gratteri, Ingroia) e i 5Stelle gridavano al colpo di spugna o almeno al pastrocchio, lorsignori (politici di ogni colore, ma anche purtroppo i pm Cantone e Roberti) giuravano che la riforma era perfetta o almeno molto migliore della precedente. In apparenza era così, visto che finalmente puniva il politico e il mafioso che scambiano voti o promesse di voti non solo per denaro, ma anche per “altre utilità” (appalti, assunzioni, favori). In realtà riduceva le pene, che prima andavano da 7 a 12 anni e ora vanno da 4 a 10. E – come subito avvertì il Massimario della Cassazione – era scritta apposta per risultare inapplicabile e mandare assolti i colpevoli. È il Renzi-style: pacchetti ben infiocchettati e, dentro, il nulla o il peggio. Vediamo come e perché.

1) Nel primo passaggio al Senato, su impulso dei 5Stelle, il Pd aveva accettato di inserire fra le altre utilità promesse dal politico al mafioso in cambio di voti la “disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione”. Poi però quella frase fu cancellata. Dunque se il politico promette al mafioso di mettersi a disposizione della sua cosca in cambio di voti, è molto improbabile che commetta reato.

2) Perché il voto di scambio sia reato non basta che il politico accetti la promessa di voti dal mafioso: grazie a un altro codicillo appositamente aggiunto in extremis al testo base della riforma, bisogna pure dimostrare che il mafioso si è impegnato a procurarglieli “mediante le modalità di cui al 3° comma dell’art. 416bis”, cioè con “la forma di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà”. Se invece il mafioso chiede i voti gentilmente, o non si riesce a dimostrare che abbia promesso di chiederli con minacce, l’accordo col politico non è reato.

È questa la scappatoia che ha salvato l’Udc Antonello Antinoro, Mister Preferenze di scuola cuffariana: incontrò due volte il boss di Resuttana, gli consegnò una busta di 5 mila euro in cambio di voti per le Regionali 2008, un picciotto chiamò il suo cellulare il giorno prima delle elezioni per comunicare che “tutte le cose stanno andando nel modo migliore” e l’indomani l’“onorevole” fu eletto con 25 mila preferenze. 


Però, scrive la Cassazione, il “nuovo articolo 416 ter” rende “penalmente irrilevanti condotte pregresse consistenti in pattuizioni politico-mafiose che non abbiano espressamente contemplato… il concreto dispiegamento del potere di intimidazione proprio del sodalizio mafioso e che quest’ultimo si impegni a farvi ricorso”: “ai fini della punibilità, deve esservi stata piena rappresentazione e volizione da parte dell’imputato di avere concluso uno scambio politico-elettorale implicanti l’impiego da parte del sodalizio mafioso della sua forza di intimidazione e costrizione della volontà degli elettori”. 

Chi ha infilato quella frasetta nella legge ne conosceva benissimo gli effetti impunitari. Noi, e non solo noi, l’avevamo scritto e detto per tempo, non solo sul Fatto (sul sito di Servizio Pubblico c’è un dibattito fra il sottoscritto e la sempre ignara Picierno, a imperitura memoria). 

Dunque non fu un errore o una svista: fu un delitto legislativo premeditato per salvare chi, in certe zone d’Italia (e non solo al Sud), non sa come prendere voti se non comprandoli dalle mafie. La trattativa Stato-mafia è un format inossidabile, che sopravvive a ogni rottamazione vera o presunta. Sarebbe ora di depositarlo alla Siae: scriveteci le vostre idee su [email protected].

Marco Travaglio 
da il Fatto Quotidiano del 30 agosto 2014


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