RUVO, IL PATRIMONIO PERDUTO

UNA CITTÀ UNICA ANCHE NELL’INCAPACITÀ DEGLI AMMINISTRATORI


Il CNR: Nulla in confronto a Ruvo in provincia di Bari, dove il 99 per cento dei siti segnalati non esiste più.


E oggi sappiamo anche per colpa di chi.

Secondo l’indagine del CNR il 99% (il 99-per-cento!) del patrimonio archeologico ruvese è ancora ignoto, seppellito o volatilizzato.

E questa sciagurata amministrazione – il patrimonio vivente preferisce distruggerlo, come la Rotonda; e il patrimonio seppellito preferisce… ri-seppellirlo.

Che resti bello morto dopo un ventennio orribile di governi cittadini uno più incapace e vorace dell’altro – che hanno portato alla distruzione e al fallimento tutta la Città.
Mentre sotto il loro naso ben chiuso a tutte le puzze c’è una Storia che potrebbe rendere tutti ricchi, aiutando la rinascita ruvese.
Ma che vuoi che sia. 

Chiudere la bocca ai Cittadini. Stravolgere, arraffare e seppellire. Altro per loro non c’è.



RuvoStoria  #SalviamoRuvo


La Grotta  di S. Cleto, in realtà originariamente cisterna
romana – Chiesa del Purgatorio – (Foto Enzo Paparella)


Un patrimonio archeologico indifeso e sconosciuto


Due giacimenti archeologici su tre presenti nel Lazio e in Puglia non sono censiti. Quasi tutti sono compromessi dall’incuria. L’allarme del Cnr.

di Federico Tulli


Altro che tesoro nascosto. Le ricchezze archeologiche non censite in due regioni particolarmente ricche di storia (Lazio e Puglia) sono oltre il 75 per cento del totale. 

Con picchi minimi e massimi che vanno dal 67 per cento della zona di Taranto al 94 per cento di Neviano in provincia di Lecce. 

I dati sono stati rilevati grazie all’indagine scientifica condotta dal Sit-Cnr (Sistema informativo territoriale del Consiglio nazionale delle ricerche) che ha impiegato metodologie e tecniche innovative dimostrando che il nostro suolo è uno scrigno di reperti di valore inestimabile quasi totalmente sconosciuti. Con grave danno sia culturale che economico.

«I beni archeologici presenti sul nostro territorio mediamente sono conosciuti solo per il 10 per cento, anche per questo molti di essi rischiano una sistematica distruzione a causa di lavori agricoli, di urbanizzazione, scavi clandestini e fenomeni naturali» osserva Marcello Guaitoli, ricercatore dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Cnr (Ibam-Cnr) e docente all’università del Salento.

«La perdita del patrimonio culturale – prosegue l’esperto ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non quello culturale, incalcolabile. Se adeguatamente conosciuto, conservato e tutelato, tale bene è una fonte inesauribile di reddito, in grado di muovere un indotto notevole in numerosi settori».

I dati del Sit raccolti attraverso le ricognizioni in sito condotte in Lazio e Puglia dal Cnr in sinergia con le università di Roma La Sapienza, Siena, Napoli e della Tuscia e con le strutture centrali e periferiche del ministero per i Beni e le attività culturali, sono stati al centro del convegno “I beni che perdiamo” organizzato alla sede centrale dell’Ente che si conclude oggi a Roma. 

Un confronto tra varie istituzioni sul rischio e sull’azione di salvaguardia di monumenti, centri storici, paesaggi e siti, anche alla luce degli ultimi eventi sismici.

Nel corso dell’incontro, il Sit ha lanciato un vero e proprio Sos: «Nel territorio di Taranto, su un totale di 1.190 siti, ben 859 sono noti grazie alla ricognizione a tappeto, mentre le aree sottoposte a vincolo sono appena otto, quelle archiviate della Soprintendenza sono 63, e sono 331 quelle note dalla bibliografia, 44 delle quali sono scomparse».

«Nulla in confronto a Ruvo in provincia di Bari – commenta Guaitoli – dove il 99 per cento dei siti segnalati non esiste più. Nel Salento le evidenze scoperte grazie alla ricerca sono il 77 per cento, pari a 3.166 sul totale delle 3.931 conosciute, a Capo Santa Maria di Leuca, 1.001 su 1.092. Il caso limite è Neviano, dove solo il 6 per cento delle aree archeologiche è presente in bibliografia».

Altrettanto critica la situazione nel Lazio. «Nel territorio di Viterbo l’87 per cento del conosciuto, 2.158 presenze, è frutto della mappatura. Nell’area a nord-ovest di Roma sono stati rintracciati 3.183 siti, il 55 per cento dei quali prima sconosciuti», prosegue il ricercatore Ibam-Cnr.

«E anche qui emerge il dato sconfortante dei molti luoghi di interesse citati in fonti scritte oggi scomparsi: esemplare la via Prenestina, dove solo 245 su 856 presenze archeologiche rilevate nel 1970 sono scampate alle opere di urbanizzazione».

La minaccia peggiore per il patrimonio culturale è costituita dai lavori agricoli, che incide nei danni da un minimo del 40 per cento (Neviano) fino all’87 per cento di Commenda (Vt); infrastrutture industriali e urbane, scavi clandestini e fenomeni naturali le altre cause.

«Nel Salento sono state danneggiate 2.916 evidenze su 3.931; a nord ovest della Capitale 1.478 su 3.183; a Viterbo, 1.342 su 2.256 solo quelle compromesse dall’agricoltura», conclude Guaitoli.

«Il Sit mostra situazioni critiche diversificate: beni conosciuti e vincolati ma privi di tutela diretta, altri esistenti ma ignoti e di conseguenza anch’essi non protetti. Un contributo sostanziale alla loro salvaguardia si deve al monitoraggio aereo e terrestre condotto da più di dieci anni dal Comando carabinieri tutela patrimonio culturale in collaborazione con il Cnr.

Queste indagini hanno contribuito in modo sensibile alla repressione e alla riduzione degli interventi dolosi e permesso di scoprire un numero elevatissimo di evidenze sconosciute, in alcuni casi di rilevanza assoluta».


Pubblicato su RL già il 16 OTTOBRE 2012
Quando si dice parlare al deserto…