Fichi, fiche e fichi d‘India



È superfluo affermare che il fico è un frutto mentre la fica non lo è, anche se ha addentellati col frutto del peccato, quel maledetto pomo che la signora Eva, incurante del divieto divino e sobillata dal serpente (che non si sa come si trovasse lì), diede a mangiare ad un inebetito e succube Adamo. 

Mangiato il frutto proibito, i loro occhi si aprirono. I due si ritrovarono nudi e cominciarono i nostri guai. Adamo probabilmente si accorse, dopo qualche ora, che la donna era dotata di vagina, e ciò prima che entrambi si coprissero. 


Ovviamente Eva, che non era affatto cieca, si accorse che Adamo aveva qualcosa di carnoso che gli pendeva davanti, ma questa è un’altra storia. Avrebbero entrambi appreso l’uso ed il fine degli organi genitali strada facendo, giacché a quei tempi non c’erano molte distrazioni. 

Fica, però, è piuttosto volgare, barbaro, basso. Difatti fica e figa, oltre che a trovarsi in basso, sono termini plebei della nostra bella e ricca lingua italiana. Il termine viene dal tardo latino fica, “frutto del fico”, come femminile di ficus, “l’albero del fico” (Ficus carica). 

L’accezione volgarotta era già presente nella parola greca (συκον) sykon, che significa fico, e fu usato inizialmente da Aristofane nelle proprie commedie. In latino venne usato per sostituire il più volgare cunnus (in italiano conno, termine desueto) e viene descritto come una ferita “in locis uericundioribus”, ovvero nei posti più vergognosi. 

Stando così le cose, il frutto dell’albero di fico assunse il nome di fico, diversamente da ciò che accade per il melo o per il pero, i cui frutti sono al femminile, quindi mela e pera. Non mi si chieda di entrare troppo nel merito del nome del frutto dell’albero dei cachi o kaki (Diospyros kaki), in italiano anche diòspiro o diòspero, originario dell’Asia orientale, altresì noto come loto del Giappone. 

Qui, nelle Puglie, diciamo caco mentre dovrebbe dirsi cachi. Cachi non è plurale ma singolare. Una caduta di stile per le evidenti assonanze con un verbo che, per chi non è stitico, è di giornaliero maneggio, sebbene sia meglio dire “mi reco in bagno” o “vado in bagno” oppure, per i più sofisticati, “vado ad espletare i miei bisogni fisiologici”. 

A Ruvo si dice pure (rendo l’espressione in italiano, traducendo dal ruvese corrente) “vado a fare il bagno grande”, intendendo che quello “piccolo” è limitato alla mera minzione. Cos’è la minzione? La minzione si ha quando l’uomo estrae il proprio organo genitale dalla patta per fare pipì, quasi sempre fuori dell’ovale. 

Cos’è la patta? Be’, non esageriamo con le domande! Esistono dei libroni che si chiamano vocabolari. Basta consultarli e les jeux sont faits! 

Per questa volta vi aiuto, mi sento generoso. Patta, in buona sostanza, è la brachetta, l’apertura dei pantaloni, che andrebbe controllata ogni giorno per evitare di andare in giro o di recarsi al lavoro con la cerniera aperta. 

A proposito di brachetta, mi sovvengono due motti di mia zia Vincenzina, donna piccola ed ironica, la quale diceva così: “Brachetta aperta, uccello morto!”, con che invitando noi maschietti a vigilare affinché l’uccello non morisse anzitempo, cosa che accade con l’andare degli anni, lo scemare del desiderio, l’andropausa. 

Si va in bianco, e l’uomo, per sentirsi ancora maschio, si getta sul blu, cioè su quelle pillole blu dagli effetti principali ed immediati prodigiosi e da quelli secondari pericolosi. Vi è poi l’altro motto: “Bottega aperta, il maestro è al lavoro”. Questo contraddice quello, cosicché – e mi rivolgo al genere maschile – scegliete il detto che più vi si confà, a seconda della situazione che state attraversando. 

Comunque, “fica” sta anche per donna avvenente, di grande bellezza esteriore, superdotata, accessoriata di airbag e di posteriore prosperoso e ben formato. “Che fica, ragazzi!” è l’espressione che i giovanotti brufolosi e ribollenti nonché quelli di ritorno utilizzano per riferirsi ad un bel pezzo di donna. 

“Te ne sei andata via con la tua amica, quella alta, grande fica” cantava l’indimenticato Lucio Dalla nella canzone “Disperato erotico stomp”, inclusa nell’album “Come è profondo il mare” del 1977. Ve la ricordate? 

Fatta questa premessa, dalle mie parti è molto frequente ascoltare dal fruttivendolo una richiesta formulata in questi termini:”Mi date un chilo di fiche?”. Che dire: siamo proprio alla frutta! 

È scorretto chiedere “un chilo di fiche”, anche perché la fica non si vende a chili sulle bancarelle dell’ortolano, mentre un chilo di fichi sì. E mai dire ad una donna “arrivedergliela”, perché sarebbe offensivo e darebbe ad intendere che la predetta, almeno una volta, l’ha data a vedere al soggetto che saluta. 

Vi è poi la variante: “Signora, gliela saluto tanto!”, anch’essa fuori luogo, come anche “gliela saluto cordialmente!”. Con la lingua possono compiersi scempi indicibili ed indecorosi, misfatti veri e propri. La lingua può esaltare o insultare.

Giunto a questo punto, consiglierei alla malcapitata di replicare con sarcasmo nel modo seguente: “Tante belle cosce”, oppure con una raffinata espressione latina: “Mater stultorum semper gravida est” (la madre degli idioti è sempre incinta), che lascerebbe il soggetto a bocca aperta e, soprattutto, muto.

P.S. Apprendo da una amica di Facebook che in Sardegna con l’espressione “fighe morisca” si indicano i fichi d’India (o ficodindia, Opuntia ficus-indica). Ammetto di essere ignorante in materia di fighe morisca e, in generale, di fighe. 


Tuttavia, non vorrei che sotto sotto voglia alludersi a ben altro, che ne so (e non me ne vogliano le donne sarde), ad una depilazione, là dove non batte il sole, riuscita maluccio e che quindi ha lasciato il pelo corto, duro e raschiante al tatto, proprio come la buccia dei fichi d’India, ruvida e spinosa.


Salvatore Bernocco