Ruvo, dove le “cose” rincorrono i “cosi”




“Questa cosa” e “questo coso”. Ma di che diavolo si parla?
“Cosa” e “coso”. Sono cose diverse. “Cosa” è un vocabolo generico che sostituisce un termine proprio, concreto o astratto, ricevendo determinazione dal contesto, mentre “coso” è un «termine di uso familiare col quale si indicano oggetti di cui non si sa o non sovviene lì per lì il nome, o che non si vogliono nominare esplicitamente (anche per motivi di pudore), oppure oggetti di foggia inconsueta e strana». È scritto nel vocabolario Treccani, dove non si cimentano quattro sciacqualattughe.
Fra “cosa bella” e “coso bello” c’è una palpabile differenza. Idem per “questa cosa” e “questo coso”. Farne un uso moderato ci può stare. Certe volte la parola giusta non si affaccia all’occhio della mente. Riposa, stracca, sulla punta della lingua e non viene fuori. 
In questi casi la sostituzione è ammissibile e scusabile, è finanche un atto di cortesia, perché non è educato fare attendere l’interlocutore all’infinito. 
Invece, farne un uso abnorme, sostituendo i sostantivi propri con “coso” o “cosa” non va affatto bene, specie se l’anomalia, che indica in questo caso una certa tendenza all’abulia ovvero un glossario molto povero, proviene da persone in possesso di diploma o di laurea o comunque di un sufficiente grado di cultura.
Mi sembra di ascoltare le vostre obiezioni. Di diplomati e di laureati ignoranti sia nel loro campo specifico di supposta conoscenza sia nella lingua parlata che in quella scritta ce ne sono a bizzeffe. 
Avete perfettamente ragione, e non oso immaginare cosa ci riserverà il futuro. Si legge poco, si scrive male e si pensa peggio. Il pensiero fluente, il discorso è stato troncato di netto. Oggi imperano le sigle, le abbreviazioni, veri e propri rinsecchimenti delle parole e dei periodi compiuti.
Fra whatsapp e messenger e altre chat si scioglie la proposizione e restano le briciole dei costrutti complessi. Ci si comprende, certo, ma si comunica? Ho i miei buoni dubbi.
“Questa cosa” e “questo coso” sono spesso sulla bocca di persone del mio paese che rivestono incarichi pubblici o hanno un ruolo di pubblico rilievo, che siano di destra o di sinistra non rileva. 
Ad ogni occasione, su ogni provvedimento, in ogni interlocuzione, ecco che essi appaiono, richiedendo uno sforzo di concentrazione, di analisi e di interpretazione da parte dell’interlocutore o dell’uditorio. 
A cosa si riferisce il “coso”? E il “coso” a quale “cosa” rimanda? Insomma, si entra in una specie di spirale diabolica, di girone dantesco, dove le “cose” rincorrono i “cosi” ed i “cosi” si scontrano con le “cose” (si legga il canto VII dell’Inferno). 
Un guazzabuglio di manzoniana memoria. Molto spesso capita che le “cose” non tornino, come i conti, e che ci si aggiorni a tempi migliori, quando il “coso” sarà finalmente ben individuato e la “cosa” avrà una sua identità. Nelle more, come si dice in linguaggio burocratico, per le stanze comunali e altrove si aggirano questi “cosi” e queste “cose” come tanti UFO pronti ad incenerire chi non dovesse comprenderne il significato.
Questa vicenda fa il paio con l’espressione “per il bene del paese” o “per il bene della città” che sta anch’essa sulla bocca di diversi esponenti politici della nostra comunità locale. 
Vengono ammanniti all’occorrenza, cioè in occasione di manifestazioni pubbliche, civili e religiose. Paese e città sono gli unici poli entro cui oscilla l’ago della differenziazione, da cui non ci si muove neanche un po’. Da cosa dipenderà l’utilizzo di paese o di città? Sono sinonimi? No, non lo sono affatto, anche se comunemente non distinguiamo.
Cosa si legge su Wikipedia? «Una città è un insediamento umano esteso e stabile, un’area urbana che si differenzia da un paese o un villaggio per dimensione, densità di popolazione, importanza o status legale. Il termine italiano città deriva dall’analogo latino civitas, e deriva dalla stessa etimologia di civiltà
Una definizione sintetica di città potrebbe essere: concentrazione di popolazione e funzioni, dotata di strutture stabili e di un territorio. Tale definizione presenta il vantaggio di una maggiore duttilità. In senso amministrativo il titolo di città spetta ai comuni ai quali sia stato formalmente concesso in virtù della propria importanza e varia secondo gli ordinamenti giuridici dei vari Stati».
Ruvo, che io sappia, non possiede il titolo di città. È un paese di quasi 26000 anime, non tutte morte, per citare il titolo di un bel libro, “Le anime morte” (1842), dello scrittore russo Nikolaj Vasil’evič Gogol’. 
Certe volte inclina al villaggio o, secondo altri, a masseria di ampie dimensioni, specie quando l’erba cresce alta nelle strade e nessuno se ne cura, quando i bidoni della spazzatura puzzano un accidente, sia che si differenzi sia che non si differenzi, quando i cani randagi ed i topi scorrazzano per le vie del borgo, quando non si pone rimedio ai raid delle zanzare e dei pappataci, la cui  puntura può veicolare un virus, appartenente alla famiglia Bunyaviridae, «che causa nell’uomo una malattia chiamata “febbre da flebotomi”, “febbre da pappataci, “dengue mediterranea” o “dengue adriatica”, malattia non grave i cui sintomi sono: cefalea, brividi, dolore retrorbitale, mialgie, astenia e dolori all’addome».
Quindi, assodato che Ruvo di Puglia non è una città, quegli esponenti o membri della politica locale dovrebbero più correttamente parlare di “bene del paese” o “bene del villaggio”, così riecheggiando la stupenda lirica di Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio (1829), le cui ultime strofe ritocco a mo’ di burla:
Politico scherzoso,
Che sempre ridi,
Cotesta età fiorita

È come un giorno d’allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, prima che ti faccian la festa; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo’; ma la tua festa

Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.


Il termine “masseria” lo userei con parsimonia e solo in casi estremi, cioè per le baruffe chiozzotte, le tenzoni elettorali, le dispute fra maggioranza e opposizione. La parola “borgo”, invece, la utilizzerei per indicare il centro storico, ormai quasi deserto.
Il termine “cosa”, infine, lo collocherei all’inizio della seguente frase, indirizzata ai suddetti esponenti: «Cosa ci fate ancora in politica?». Perché, se non si è in grado di distinguere, non si è neppure in grado di fare politica o di amministrare, che si tratti di un paese o di un condominio.
Lo dico senza ironia o intento polemico, ma solo per il bene della lingua italiana e del mio paese natale.  
               Salvatore Bernocco
Tratto dal numero de “Il Rubastino” di dicembre 2014