CHE NE SARÀ DI NOI?


 “Bisognerebbe lasciare, senza rimpianti o recriminazioni, la vita politica quando si è all’auge della notorietà, sempre che ci si sia battuti per ideali grandi e per progetti di elevazione ed evoluzione sociali con probità, lungimiranza ed umiltà. Lasciare dopo che si è raggiunto quel vertice, cioè quando la curva del gradimento e della notorietà comincia a declinare, significa votarsi al fallimento ed alla riprovazione generale, col rischio che venga incluso nel giudizio negativo anche quel periodo della propria vita politica in cui si è servito correttamente il popolo”. S.B.

Avevo pensato di esordire scrivendo di altro argomento, ma stamattina mi è capitato di incontrare e dialogare con un giovane imprenditore ruvese che, deluso dall’andamento complessivo del sistema Italia, farraginoso e sull’orlo perenne di accartocciarsi su sé stesso, è sul punto di lasciare il Bel Paese per trasferirsi in Svizzera, dove iniziare una nuova vita.

“È un altro mondo”, mi diceva. Permessi più facili da ottenere, meno burocrazia, più civiltà e rispetto per il lavoro. Disoccupazione ai minimi, come gli episodi di corruzione che, da noi, ha raggiunto nel 2013 la cifra iperbolica (stimata per difetto) di 60 miliardi di euro, la metà del totale europeo. Un primato di cui vergognarsi. Un’autentica zavorra allo sviluppo e alla nostra credibilità internazionale. 


Non siamo più il Paese del mandolino, della dolce vita, degli spaghetti e della pizza. Siamo il Paese delle mazzette e delle mazzate assestate sulle teste delle persone che non hanno santi in paradiso e che devono destreggiarsi fra norme caotiche, regolamenti, disposizioni, direttive, interpretazioni, una sanità che fa acqua da tutte le parti ed una spesa pubblica alimentata dagli sprechi e dai privilegi delle caste. 

Si pensi che in Italia vigono, spesso in contrasto fra loro, ben 150.000/200.000 leggi, laddove in Gran Bretagna ce ne sono 3.000, in Francia 7.000, nella tanto criticata Germania 5.500. La burocrazia italiana, poi, assorbe circa 400 ore all’anno per cittadino. 

Lo dimostra un’indagine Istat. Per il Codacons, un’associazione di consumatori, 400 ore all’anno di fila equivalgono ad una spesa di 40 miliardi di euro ogni anno. 400 ore sono più di 16 giorni, oltre due settimane passate agli sportelli delle Asl, delle banche, agli uffici comunali, magari in attesa di rinnovare un documento. 

“La colpa è in molti casi della mancanza del personale, dell’assenteismo, di procedure obsolete che potrebbero essere migliorate con il semplice utilizzo delle nuove tecnologie”, sostiene la predetta associazione.

Con queste cifre è evidente che non si va da nessuna parte e si aumenta a dismisura il contenzioso legale, producendo costi aggiuntivi e, di riflesso, la necessità di far ricorso a nuove tasse o ad incrementare quelle esistenti. Le leve della finanza pubblica erano e rimangono due: l’entrata e la spesa. O si riducono le spese o si aumentano le entrate. Tertium non datur, direbbero i nostri antenati latini.

Ora, nella sua difficile, delicata e coraggiosa decisione ha avuto un peso determinate anche la riflessione/preoccupazione sulla sorte dei propri figli. “Cosa sarà dei miei figli qui, in questo Paese? A Ruvo poi non avrebbero un futuro!“. Come dargli torto? È un avvenire che sin d’ora si presenta a tinte fosche, stigmatizzato dalla precarietà e dalla complicazione, dall’estrema incertezza. 


Da una doppia incertezza, quella legata al decorso del tempo, giacché “di doman non c’è certezza” (Lorenzo de’ Medici), e quella connessa alle opportunità di lavoro, alla possibilità di mettere su casa, di accendere un mutuo, di vivere una vita serena, di conseguire “quel tanto che basta per vivere una vita onesta e dignitosa”, come spesso mi diceva mio padre.

Papa Francesco ci invita a non essere catastrofisti, ma, ammettiamolo, è difficile essere ottimisti se il quadro è quello che ho appena delineato e che, al di là dei tanti proclami politici, tende a non mutare se non nelle forme, in puro stile gattopardesco. In una nazione dove ciò che è temporaneo diviene definitivo, a maggior ragione ciò che è consolidato diventa radicato e difficilmente estirpabile, a meno che non intervenga una rivoluzione di tipo giacobino.

Diamo ora un’occhiata rapida alle vicende di casa nostra, Ruvo di Puglia, comune collinare su cui grava un debito di proporzioni gigantesche che condizionerà l’andamento amministrativo per i prossimi vent’anni, a meno che qualcuno non si inventi un doppione del decreto salva Roma. 


Del resto, si usa dire, celiando, che Ruvo è come Roma, solo che mentre a Roma c’è il Pantheon, da noi c’era il pantano. Mai adagio fu più azzeccato, visto che l’impressione è proprio quella che ci troviamo immersi fino al collo in una palude, e non per colpa nostra, ma per colpe altrui. 

Viviamo, in altri termini, su una collina di debiti formatisi per ragioni diverse, su cui mi auguro che finalmente qualche organismo possa svolgere un’indagine approfondita che porti a chiarire ruoli e responsabilità. E che condanni gli eventuali responsabili a risarcire il danno, cosa questa che assai di rado accade.

Sotto il profilo politico c’è da segnalare il patto federativo fra Patto per la Città e Forza Italia. È scoppiata la pace fra le due formazioni che in passato se le sono dette di tutti i colori? Forse sì. 


E tessitore e garante di esso sarebbe stato il senatore coratino Luigi Perrone, plenipotenziario di Raffaele Fitto. Al di là delle elucubrazioni sul grado di solidità dell’accordo, che taluni attribuiscono alla tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, è comunque un segnale di movimento che può lasciare interdetti solo coloro che hanno scarsa frequentazione con le liturgie ed i rituali della politica. 

È normale che, in vista delle prossime amministrative del 2016, lo scenario politico locale si rimetta in moto e che gli affini, o i meno distanti, ricerchino motivazioni per stare insieme e stringere alleanze ed accordi. Non ci vedo nulla di anomalo. 

Sarebbe anomalo se si andasse in ordine sparso e si continuasse ad alimentare rancori e distinguo, del tutto dannosi ed inconcludenti. A sinistra, del resto, accade la stessa cosa, sebbene SEL abbia dato il benservito ad Ottombrini con un duro comunicato. 

Soltanto il M5S, fedele al proprio atto di nascita, rivendica la propria specificità e distanza rispetto alla destra e alla sinistra. E, con molta probabilità, anche alcune formazioni civiche esistenti o in via di consolidamento.

Un’ultima annotazione riguarda il Consiglio Comunale tenutosi lo scorso 21 maggio. Il clima si è surriscaldato a causa di un aspro scontro fra un consigliere del PD ed il consigliere di Rifondazione Comunista. 


Vi è stato un ulteriore nulla di fatto e, a detta di un assessore comunale, è come se il Consiglio Comunale si sia trasformato in un’arena televisiva, dove si confrontano – urlate – posizioni personali piuttosto che idee per la soluzione delle problematiche che concernono la vita dei cittadini. 

Pare che non sia la prima volta che in Consiglio siano volati piatti, posate e stoviglie, e che le parole si siano arroventate e siano diventate offensive ed infamanti (difatti pare che vi siano anche delle querele incrociate). 

Non è decisamente un buon segnale nel momento in cui occorrerebbe un surplus di senso di responsabilità, di calma, di attenzione alle questioni locali da parte delle forze politiche presenti in Consiglio. 

La massima assise cittadina non può – e su questo credo tutti possiamo concordare – trasformarsi in un ring. Essa è il luogo deputato al confronto e alla soluzione dei problemi cittadini, non altro. Non è un tribunale e nemmeno una bettola d’angiporto.

Il mio auspicio è che il buon senso ed il decoro possano prevalere sulle spinte sfasciste e sulle manifestazioni dell’io egoico/bellico, e che la politica torni ad offrire il meglio di sé, l’immagine reale e sostanziale di uomini e donne dediti esclusivamente a pensare, progettare, agire per il bene comune. Per il bene di tutti.

Salvatore Bernocco