LE DUE CITTA’ – Quel che rimane di Pino

 



Finalmente l’abbiamo visto, il famoso video dei 18 secondi.

Finalmente i 4 (5 con l’autista) sono stati individuati e presi. Ne va dato merito agli Investigatori, il cui lavoro abbiamo sempre sostenuto e rispettato.
 
Ma non c’è gioia. Solo un po’ di soddisfazione. E un’infinita tristezza.
 
La caccia agli assassini manteneva ancora irrisolta la tragedia del 13 aprile. La cattura dei responsabili (se tali sono) la chiude. Ma chiude anche il cerchio dell’ineluttabile.
 
Fino a quando eravamo tutti in caccia, c’era ancora qualcosa da attendere. Ora non c’è da attendere più nulla, se non che la giustizia faccia il suo corso.
 
Avremo probabilmente ancora molto da dire e da scrivere. Ma è come se oggi Pino fosse morto davvero, per intero. È questa, l’origine di quella indicibile tristezza.
 
Non c’è più niente da attendere. Si potranno sapere forse le motivazioni. Ma il caso è sostanzialmente chiuso. Rimane aperta solo la questione se la città saprà far tesoro della terribile lezione e muoversi verso la prevenzione, come abbiamo suggerito. E come non è successo nei 20 anni successivi all’analogo assassinio del salumiere La Fortezza, nell’aprile 1992. 
Dio non voglia che anche questa volta tutto finisca nel dimenticatoio e del tirare a campare. Che poi campare non è. Noi continueremo per parte nostra a tenere alto il focus sulla sicurezza. La città dovrà riflettere e agire.
 
Rimane che la vita continua. Che la famiglia dovrà adattarsi. Che la signora Lucia dovrà continuare a dare ai suoi bambini i sorrisi, l’affetto; e anche un po’ di quella serenità che lei stessa non ha più.
 
Col tempo dovrà, come si dice, rifarsi una vita. La salumeria riaprirà presto. Sarebbe bello che cambiasse nome e si chiamasse, semplicemente, “da Pino”.
 
Perché è così che continueremo tutti a chiamarla. E perché non possiamo accettare che quattro teppisti cancellino in 18 secondi un pezzo del nostro mondo.
Sarà un po’ (putroppo, solo un po’) come tornare da Pino, incontrarlo ancora, seppure virtualmente. Non dimenticarne il nome col tempo.
 
E rimane quel video. Quei 18 secondi che abbiamo rivisto cento volte. Alla ricerca del dettaglio illuminante. Qualcosa che faccia capire. 
 
Entrano alla spicciolata, in fila indiana, con calma. Sembra routine. Quasi stiano facendo la spesa.
 
Il primo alza il braccio destro come se puntasse una pistola. Il secondo fa lo stesso col braccio sinistro. Il terzo non fa nulla: segue e basta. Sembra lì per caso. È quello che deve materialmente prendere la refurtiva. Sono calmi. Sembra lo facciano da una vita.
 
Il quarto ritarda un po’, poi arriva. Ha una strana cresta di gallo sul capo. Il piede di una calza femminile o una cresta del passamontagna. Armeggia con calma con entrambe le mani. Probabilmente toglie la sicura dalla pistola e mette il colpo in canna. Siamo ai secondi 7 e 8 del filmato.
 
Quando il quarto bandito esce dal campo visivo siamo al secondo 9. Poi tre secondi in cui non si vede nulla ma dev’essere successo di tutto. Pino non entra mai nel campo visivo della telecamera. Ma in quei tre secondi deve aver lottato come un leone. Probabilmente buttato a terra.
 
I balordi afferrano il registratore di cassa e scappano. Al secondo 12, ecco il primo dei banditi rientrare nel campo visivo, e gli altri in successione. Sempre più concitati perché con ogni probabilità Pino si è ripreso e li sta inseguendo, con tutta la comprensibile rabbia del mondo.
Stanno scappando, la calma è scomparsa, uno ha perso la calza o passamontagna ed è a volto scoperto, i capelli lunghi.
 
Al secondo 16 sono ormai fuori campo, tranne quello con la cresta. L’ultimo ad entrare. L’ultimo ad uscire. L’unico con la pistola “vera”. Quello con la cresta di gallo. Il capo.
 
È sotto quella cresta che prende forma il dramma. Perché sta uscendo ma ci ripensa. Si gira. Alza il braccio sinistro e la mano ha un rapido movimento verso l’alto. Sembra quasi uno scherzo, senza il sonoro. Quasi che faccia finta di sparare, come si fa a volte mimando una pistola con le dita. È il secondo 17. Pino non c’è più.
 
Una mira micidiale o una fortuna sfacciata. Non è stato un colpo a bruciapelo come si è sempre detto, ma un centro dalla breve distanza.
 
A giudicare dalla traiettoria, Pino doveva essere a un paio di metri circa dal killer. Forse meno. In rapido avvicinamento. Forse aveva avuto il tempo di prendere uno dei temibili coltelli da lavoro – chissà. Una furia umana.
 
Tanto che l’assassino si è spaventato e anziché sparare in aria o al limite alle gambe o al corpo di Pino (bersagli ben più facili) ha mirato alla testa.
 
Ha fatto centro. E con un solo colpo è riuscito a far fuori 5 vite. Ad una ha tolto il corpo.  Alle altre, compresa la sua, ha lasciato solo quello.

Quel che rimane di Pino è l’immagine che ha impresso nei figli. È l’amore che ha lasciato nella famiglia. È l’esempio di coraggio nel non accettare un sopruso.


Quel che resta di Pino è la dedizione al suo lavoro. La dignità di chi è partito da zero e ha raggiunto il benessere senza piegarsi. La simpatia e la creatività con cui trattava i clienti fino a farseli amici. La straordinaria professionalità che così spesso incantava, anche quando ti convinceva a spendere di più.

Quel che resta di Pino è una città che ha perso la sua favola. La Bella Addormentata che si risveglia e non si piace. In crisi, stantia, soffocata, sull’orlo di un abisso scavato da decenni di malgoverno, non solo locale.
E per di più circondata da altre città in non meno rapida decomposizione sociale. In un interscambio di commando improvvisati, di cellule killer che possono colpire ovunque, con raccapricciante casualità.

Ora 5 di loro sono stati messi fuori gioco. Fino a quando? Ma soprattutto: quanti altri figli del disagio e della disperazione sono pronti a prenderne il posto?


Quel che resta di Pino è un ricordo destinato ad affievolirsi. Cibo per commemorazioni. Ed è questo l’aspetto più malinconico. Più sterile.


Oppure quel che resta di Pino è l’impegno di una città ritrovata a fare di tutto perché la dura lezione sia appresa e dia frutto: perché non si ripeta mai più. Dipende solo da noi.

Sarebbe un po’ come averlo ancora qui.


Noi abbiamo visto e vediamo entrambe le città. Quella rassegnata e quella pronta a reagire, pacificamente, democraticamente, rimboccandosi le maniche.


È quella, la città che vogliamo veder vincere. 
 
mario albrizio