Uno Shakespeare a Palazzo Avitaja

 

Giulio De Leo rivisita uno Shakespeare insolitamente leggiadro e in grande spolvero, nella commedia brillante Sogno di una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Dream).

 
Lo fa con i poveri mezzi di una performance scolastica, ma con l’aiuto di ragazzi che, come spesso a quella età, si innamorano della scena e danno il massimo, quasi come consumati professionisti.
 
Alcuni dotati, altri meno (per ora), ma tutti accomunati dalla stessa passione.
 
Il risultato non è impeccabile, ma senz’altro notevole.
 
La scena è insieme spartana e dispersiva, gigantesca e spoglia. Ma riempita dal fiato e dalle movenze di questi ragazzi, e ragazze, sempre pronti al grande salto dal mondo della realtà a quello della fantasia/recitazione.
 
La necessità di una scena (non palco) così grande costringe evidentemente il regista a capovolgere gli spazi, così che il palco sopraelevato, troppo piccolo,  si riempie di sedie e diventa tribuna; mentre quella che avrebbe dovuto essere la platea diventa scena.
 
Ciò significa che la scena sprofonda rispetto al piano della visione, con l’effetto di una pessima visibilità per la parte di azione a ridosso del pubblico, salvo la fortunatissima prima fila.
 
Aggiungiamoci un audio affidato alla sola voce umana, senza microfoni individuali ad archetto (sarebbe costato troppo), che quindi spesso si smozzica e si perde, a seconda di chi parla – ed il quadro diventa sconfortante.
 
Invece no. Nonostante questi nei, il pubblico applaude ripetutamente e con palpabile soddisfazione. Miracolo della vis scenica imposta da questi ragazzi del Tannoia, che sanno catturare l’attenzione nei momenti simbolici e far esplodere liberatoriamente la tensione in quelli comici, non a caso prediletti da un pubblico affamato di cultura.
 
Un po’ lenti i balletti, spesso seriosi e a tratti noiosi. Ma su questo – lo confesso – sono di parte. Amo il balletto quando è puro, quando è espressione. Quando è intermezzo o, al più, sottolineatura d’altro, mi sa troppo di varietà e di cattiva tv. Senza nulla togliere ovviamente alla bravura dei ragazzi che anche in questo hanno messo l’anima.
 
E senza nulla togliere alla ormai matura padronanza di Giulio De Leo. Uno dei tanti talenti che finiremo per perdere se questa città non deciderà in fretta cosa vuol fare da grande.
 
Lo scenario, un tempo suggestivo, dei Domenicani è oggi una cornice malinconica; un fondale lacerato da colate di scolo e muffa raggrumite alle onuste pareti, un tempo non troppo lontano rimesse a nuovo e poi abbandonate alla quasi totale assenza di progettualità. Crudelmente evidenziato dai giochi di luce. Con gli aerei che solcano lo stanco quadrato stellare della sera ed entrano rumorosamente in scena.
 
Lo stesso spirito di adattamento acrobatico che Giulio ha dovuto mettere in campo per incastrare spazi e scene ne è indicatore.
 
I Domenicani non possono essere il generico contenitore di quel che capita. Devono avere una vocazione, esprimere una visione, ed essere attrezzati di conseguenza.
Devono diventare fabbrica, non contenitore, di cultura. Cosa ne pensano a Palazzo Avitaja, la sede del Comune?
 
Perché il teatro è un’arma potente, come ha già visto Aristotele più di duemila anni fa. Perché la Cultura è l’unica speranza di un mondo migliore. E perché non tutto, non sempre, si può lasciare al caso o al “destino”, se vi è differenza. 
 
Perché non sempre c’è l’entusiasmo che tutto travolge di ragazzi pronti a ogni impresa. Non sempre un giovane regista armato di pazienza e umiltà. 
 
Non sempre uno Shakespeare straordinariamente in forma, che mescola sapientemente i ruoli tra uomini e divinità, tra sogni e realtà, tra pubblico e attori e persino tra l’autore e la sua caricatura (vedi l’auto-citazione ironica da Giulietta e Romeo, col suicidio analogo ma qui farsesco dei due innamorati).
 
Uno Shakespeare nel pieno della maturità espressiva, di una disinvoltura creativa quasi spaventosa, colmo di una leggerezza drammaticamente allegra, padrone assoluto dei suoi mezzi, che – senza dimenticare di prendersi in giro – gioca all’eterno gioco dell’onnipotenza dell’Autore/Creatore, che crea i suoi personaggi al solo gusto di scambiarli, di imbrogliarli e di piegarli al proprio volere.
 
Schiavi predestinati alla logica dell’entertainment, oggi così popolare. Come forse Dio fa con gli uomini, che nel Midsummer Night’s Dream passano così scioltamente da uno stato all’altro, da una veglia a un sonno nessuno dei quali è meno ingannevole dell’altro. Né più libero. 
 
Uomini e divinità, sogni e realtà, pubblico e attori, l’autore e la sua caricatura. Nel finto ma divertente gioco dell’onnipotenza creativa che ahimé, nulla può sul teatro cadente, sul palco che diventa tribuna e sulla platea che diventa scena, sul sogno solcato dai reattori, sulle voci che si perdono nella notte di una mancanza di progettualità che stenta a passare, o che si accontenta di piccole cose slegate tra loro.
 
L’esplosione di creatività di questa sera avrà un futuro? C’è da qualche parte il re degli elfi che ci addormenterà sfiorandoci appena e ci farà risvegliare in un contesto adeguato al sogno che viviamo, o almeno abbasserà i nostri sogni al contesto, così che non ci accorgiamo più della nostra condizione?
 
O più verosimilmente toccherà rimboccarsi le maniche perché l’unico modo di far combaciare sogni e realtà è sognare ad occhi aperti. Cioè, Progettare.
 
C’è uno Shakespeare, a Palazzo Avitaja?
 
 
mario albrizio