Giovanni Impastato, la legalità non basta


Diciamolo: le 16 non sono un buon orario per nessuno. Neanche in uno splendido pomeriggio di primavera inoltrata, di cui magari approfittare per una delle prime passeggiate senza più l’assillo del coprirsi. Il lavoro, o la casa, o la scuola – o la siesta, sono motivazioni solide, che spiegano tante cose. Ma non tutto.
 
Così come il fatto che l’evento sia stato relativamente poco pubblicizzato (come spesso accade alle nostre cose di popolo distratto e diviso, concentrato perlopiù
sul singolo orticello di ciascuno).

 
Tutto questo aiuta a darsi una spiegazione. Ma fino a un certo punto. Perché alla fine il piccolo Teatro comunale si riempie, ma solo grazie alla presenza di due classi scolastiche, una di Corato e una di Molfetta. Pochissimi gli indigeni. Neanche le solite avanguardie.

 
Mi chiedo, a distanza di pochi giorni dalla spettacolare fiaccolata civile per Pino Di Terlizzi e per una Città Sicura – mi chiedo se è la stessa città. O se per qualche incantamento (come dice il poeta) non siamo stati tutti portati altrove, magari a Cinisi, quasi 40 anni fa… con le sole scuole a portare avanti la battaglia civile di una democrazia partecipata, l’esatto contrario della violenza e dell’omertà mafiose.
 
Ma una scuola abbandonata dalla società quante chances ha? Soprattutto in contesti come questo, a fortissima radicazione familistico-clientelare e quindi ad alto rischio mafioso – secondo l’insegnamento di Falcone, che definì il clientelismo “padre della mafia”. Com’è che non c’è ancora un’adeguata coscienza civile di quanto le due cose siano collegate? Di quanto bisognerebbe fare diga civile verso un sempre più evidente depauperamento dei limitati spazi di democrazia di cui ancora godiamo?
 
Poi per fortuna si apre un vortice umano che ci libera dai tormenti del meriggio solitario e ci fa entrare a Teatro.
 
Giovanni Impastato è quello che si dice un uomo di mezza età. Niente a che vedere col ragazzo che ne “I cento passi” duella col più caratteriale fratello Peppino, 5 anni più grande. Il più ribelle, il più tragicamente grande, il più mitizzato, il più celebrato eroe della nemesi mafiosa, della mafia che nega se stessa e diventa società civile d’avanguardia.
 
Figlio e nipote di mafiosi, cioè di famiglie della élite criminale che sfrutta e taglieggia il popolo, i poveri cristi, a vantaggio dei veri potenti, gli agrari, i signorotti di timbro manzoniano – quelli che hanno a che fare da pari a pari con lo Stato – Giovanni Impastato ci tiene a mettere bene in evidenza la doppia rottura compiuta da Peppino, suo fratello, e, sulla sua scia, da tutta la famiglia.
 
La rottura con il padre (un misto di uccisione freudiana adolescenziale e di uccisione sociale da parte di un ragazzo attratto più da ideali di uguaglianza e solidarietà che dal basso e violento privilegio mafioso), e la rottura col contesto sociale mafioso di cui il padre stesso è espressione; la mafia all’antica di cui lo zio Cesare Manzella è l’emblema e il capobastone.
 
Quando Manzella salta in aria, fatto fuori dal consanguineo Badalamenti che ha deciso di entrare nel più redditizio business della droga e degli appalti truccati e moltiplicati oltre ogni limite, di fatto salta in aria anche la vita psicologica di due ragazzini che devono fare i conti con le proprie radici e ri-posizionarsi nella (o oltre la) società di cui la loro famiglia è espressione.
 
Adeguarsi? Piegarsi? Prendere le distanze? Ribellarsi? Al padre tocca la parte del piegarsi, dell’accettare la legge tribale del più violento e senza scrupoli.  E’ quello che gli hanno insegnato, il  brodo in cui è cresciuto, di cui è fatto. Piegarsi, ma non tanto da accettare il sacrificio del figlio. 
 
A Peppino tocca la parte della ribellione. E’ lui che raccoglie la sfida di Badalamenti. E’ lui che vendica l’onore dello zio e la rassegnazione del padre. Ma non da mafioso. Peppino sposta il tiro, cambia i connotati del problema e apre scenari mentali e socio-culturali che rivoluzionano il quadro percettivo dell’epoca e di quella società.
 
Ai brutali rapporti di forza violenta sostituisce i rapporti di cultura. Alla sopraffazione e alla chiusura omertosa sostituisce la collaborazione civile, la rete, l’apertura sociale e culturale. Un’apertura che si spinge ad abbracciare come ideale la bestia nera dei mafiosi e dei loro padroni: il comunismo, nell’accezione confusamente marxista (in realtà, al più, italo-leninista) che questa parola assume negli anni Settanta. Un fantasma di liberazione la cui realtà Peppino ha avuto la fortuna di non conoscere, se non come orizzonte possibile; ma il cui ideale era sufficiente ad infiammare la sua gioventù così irruenta, il suo animo nobile e impulsivo, paglia affamata di scintille.
 
E’ lui il figlio maggiore, il grande. A lui tocca, data l’inettitudine del padre (dilaniato tra fedeltà mafiosa e affetto genitoriale), raccogliere la sfida. Non si tira indietro, Peppino. Lo fa, a modo suo, e a suo modo la vince. Nell’unico modo possibile. Scegliendo il terreno; spostando il confronto dove è più forte, sul piano dell’intelligenza e della cultura. Della provocazione, in una società usa a subir tacendo.
 
Attraverso la ridicolizzazione del boss, Peppino riesce a incrinare, in qualche momento persino a invertire, i rapporti di forza. A fare della massa battuta e sottomessa una folla critica e ridente. Sia pure solo nel chiuso delle case, davanti alla radio sintonizzata su Aut, a sentire gli sberleffi di un giovanotto di cui tutti prevedono il destino, ma che pure affascina come un sogno proibito di libertà. Una folla di schiavi che finalmente ride del capo, del boss dei boss. E questo fa impazzire Badalamenti.
 
Se solo Peppino avesse avuto dalla sua uno Stato degno di questo nome, oggi parleremmo della mafia come di un folcloristico fenomeno di sottosviluppo sociale che appartiene al passato remoto. Invece siamo qui, 34 anni dopo, a vedere la mafia che conquista pezzo per pezzo l’economia e quello Stato che non ha saputo e voluto combatterla, accettando piuttosto (e probabilmente agevolando) che a perire fossero i suoi servitori migliori.
Come se privandosi dei migliori soldati si possa mai vincere una guerra.
 
Giovanni parla a lungo del “doppio strappo“, dalla famiglia (mafiosa) e dalla società mafiosa (cioè sottomessa alla mafia) e rassegnata.
E’ stato lo strappo del fratello eroe. Ma anche il suo. Più modestamente (“io avevo più paura di lui”) e in qualche modo a rimorchio (“avevo 5 anni in meno; lui attraversava i conflitti dell’adolescenza e io ero ancora in piena infanzia”).
 
La camicia bianca che fa a gara coi capelli corti. La pancetta regolamentare da cinquantenne occidentale. Giovanni ne ha per tutti. Coglie lo spunto dalle domande dell’ottima moderatrice Anna Pellegrini, o dai brevi testi che i ragazzi leggono, per menare fendenti impietosi praticamente contro l’intera società attuale. Non solo siciliana e non solo italiana. L’idolatria della tv e dei suoi eroi idioti. La farsa del pallone al cui rito tutti (o quasi) si sottopongono (“ventidue buffoni su un rettangolo verde che recitano un copione in cui non c’è gara e in cui tutto è già scritto”).
 
La cultura non c’è più. Una volta c’era Pasolini. Oggi il Grande Fratello. Una volta gli intellettuali provocavano e suscitavano dibattito. E  magari la pagavano cara. Oggi pensano solo a piazzarsi come prodotti e magari vengono spediti in tv.
 
Certo, dice , “senza Peppino io non sarei qui”. Ha trascurato lavoro e famiglia per vivere come testimone del messaggio di Peppino. Una vita da gregario, avrebbe detto qualcuno. O una vita da via crucis. Per portare una croce che al fratello è stata tolta anzitempo.
 
Fatto sta che si percepisce, nelle parole di quest’uomo provato ma che non molla, il timore che tutto possa essere stato vano. Che l’apertura culturale e sociale degli anni ’70, che l’esperienza di Peppino ma anche dei grandi intellettuali, cantanti, poeti, profeti (“Joan Baez, Bob Dylan, Martin Luther King, Gandhi”) possa richiudersi e scomparire, così, come un maroso tra i flutti della storia, che passa e travolge e svanisce senza lasciare traccia consapevole.
 
Sottolinea più volte l’importanza della scuola, dell’esercizio critico e di libertà di cui oggi è forse l’unica portatrice; così come l’importanza di difendere il proprio territorio (la “bellezza” di cui parlava Peppino) e ancor più la propria democrazia, il proprio territorio sociale, come lo chiama – tanto più in un momento in cui gli spazi democratici si restringono sempre più.
 
Un uomo ispirato, che si identifica col suo accento siciliano ancora molto marcato (il raddoppio delle consonanti iniziali, come sulle rregole; o la compressione delle consonanti come in strage), ma che parlando con quell’accento atavico mostra una mente aperta ad una vera cultura di crescita civile e democratica. Il segno di una lunga battaglia, e di una grande vittoria. Contro l’omertà, contro la schiavitù all’humus in cui si è nati. Per la consapevolezza e la libertà.

La legalità non basta, dice. Non basta seguire le rregole. Bisogna che anche le regole e le leggi siano improntate ad umanità, e non siano solo semplici regolatori e custodi di potere. La legalità ha valore solo se è fondata sul rispetto della persona umana. In questo senso la Costituzione, dice, è il punto di riferimento e il faro che deve guidare la nostra azione quotidiana.

E il pensiero corre ai tanti deputati che hanno mostrato, quanto alla Costituzione, al cuore e alla storia di questo Paese, di averne al massimo sentito parlare. E piuttosto vagamente.
Ma ancora niente di fronte ai 120 deputati, non solo siciliani, in cui Impastato valuta la “rappresentanza” mafiosa in parlamento. Se è questa la gente che fa le leggi, chiosa, è evidente che la mera legalità, il rispetto di quelle leggi, non è tutto. E a volte è poco.

La mafia è dentro lo Stato. Sono 150 anni che c’è, aggiunge, con evidente riferimento all’Unità d’Italia.
 
Un uomo che dimostra che il cambiamento e le grandi sfide non sono solo appannaggio degli eroi, delle grandi personalità come Peppino. Ma che cambiare è un obbiettivo possibile per tutti. E in questo senso il messaggio di Giovanni è, per certi versi, persino più importante di quello del fratello.
 
La rivincita hegeliana, forse, affettuosa, del gregario sul leader. Ma anche la più viva conferma che saper raccogliere il messaggio degli “eroi” e farne testimonianza è il grande antidoto, forse il solo grande esorcismo, perché non sia abbia più bisogno di altri sacrifici – resi invece inevitabili dal chiudersi della società su se stessa, come micce esplosive che impongono anche negli angoli più sperduti la legge del progresso e del cambiamento.
 
Se solo questo messaggio avesse potuto trovare un terreno più fertile di un meriggiare pallido e assorto, tra la collina e il mare, in questo piccolo teatro dove non è più chiaro cosa sia realtà e cosa rappresentazione. Cosa passato e cosa futuro. Tra una democrazia che muore e un futuro che non arriva. Tra schiocchi di merli e muri di cocci aguzzi. E, soprattutto, frusci di serpi.

La città è alle spalle. Il futuro, chissà.

mario albrizio