Conto alla rovescia

 

Nel (comprensibile) silenzio degli inquirenti le voci si moltiplicano, si inseguono, si ingigantiscono, si distorcono, scompaiono e ricompaiono.

 
Abbiamo comparato almeno un centinaio di versioni – dal vivo, al bar, sul web, in tv, sui giornali cartacei – senza trovarne due uguali. 
Si sa poco, ed è quasi impossibile distinguere tra elementi certi e parti frettolosi, a volte fin troppo cinematografici, di fantasie sovraeccitate.
 
Corre voce (verrebbe da dire: ovviamente) che si sappia già chi sono. Che addirittura starebbero trattando con i propri avvocati per costituirsi.
Impossibile al momento mettere un punto fermo e spendere una parola di chiarezza in questo turbinìo.
 
L’impressione è però che il caso sia relativamente semplice, con le immagini delle telecamere, la pistola e il (o i) passamontagna lasciati sul luogo del delitto. E nella corsa a piedi per qualche centinaio di metri è altrettanto impossibile che non siano state lasciate altre tracce.
 
Con tutti questi elementi, il silenzio degli investigatori è eloquente. E’ solo questione di tempo. Arrivare alla foto giusta, all’impronta, al residuo biologico, al riconoscimento che apre le porte della soluzione dl caso.
 
Ma è probabile che il cedimento arrivi prima dall’interno. Qualcuno che sa e che parla. Un amico, magari. Un genitore che mette insieme i pezzi di un mosaico terribile e intuisce, e mette il suo ragazzo (il suo “bambino”) di fronte alle sue responsabilità. O uno che ha visto e ha taciuto, e finalmente vince la paura e torna ad essere un cittadino libero, consapevole che anche dal suo comportamento dipende la costruzione di un futuro migliore per tutti.
 
Ma se dobbiamo scegliere un finale, noi continuiamo a fare il tifo perché quei ragazzi, che passato l’effetto allucinogeno si sono senza dubbio resi conto dell’enormità tragica del loro gesto, scelgano di rimediare per quanto possibile: di sottoporsi al lungo e duro cammino della giustizia, della rieducazione. E, col tempo, della rinascita.
 
Mentre nella città si moltiplicano le tristi e truci voci forcaiole che, al netto della comprensibile emotività, non sono che il solito antichissimo modo di evocare un rimedio peggiore del male – da qualche parte, come abbiamo detto, ci sono altre quattro famiglie che stanno per essere devastate. 
 
Ci sono quattro adolescenti o poco più, che con in mano una pistola e in corpo la cocaina si sentivano invincibili. E che ora devono fare i conti con l’abisso drammatico che hanno scavato sotto la loro stessa vita, prima e oltre che sotto la vita di Pino e della sua famiglia, prima e più che sotto il senso di sicurezza tranquilla della città, diventata all’improvviso pensierosa insicurezza. E paura.
 
Le probabilità sono limitate, ma non nulle. E le risorse dell’animo umano praticamente illimitate, quando acquista consapevolezza.
 
Ripetiamo il nostro appello quei ragazzi. Quello che avete fatto non ha giustificazione e non può essere perdonato, se non da Dio.
Nessuno può ridarci Pino. Nessuno può ridarlo alla sua famiglia. Nessuno può riportarlo ai suoi figli. Ed è già una ferita abbastanza grande per tutti.
 
Ma siamo ancora in tempo per salvare le vite di quattro ragazzi, delle loro famiglie, e in qualche modo la vita della città ferita, a cui quei quattro ragazzi possono restituire almeno un po’ della sicurezza perduta. Scegliendo di pagare. Aiutando a capire, a delimitare, a cambiare e a ricostruire.
 
Quei quattro ragazzi, chiunque siano, non sono bestie come qualcuno già li chiama – magari qualcuno che si dice anche cristiano. Sono espressione di un malessere che è ben più grande e profondo. Un malessere che dobbiamo essere capaci di guardare in faccia, curare e guarire, se vogliamo evitare che simili orrori si ripetano.
 
Sono ragazzi nostri. Sono figli nostri. Appartengono a quelle generazioni lasciate a se stesse, senza speranze e senza prospettive. Sono gli stessi ragazzi che abbandoniamo davanti alla tv, cresciuti nel mito della fama, della ricchezza e di tutta la melma che fuoriesce quotidianamente, senza scampo, senza via di fuga, dagli orribili elettrodomestici che hanno sostituito la famiglia, la scuola, la società, e a cui con troppa leggerezza affidiamo ciò che abbiamo di più importante – i nostri figli e il futuro di tutti.
 
Fatevi avanti, ragazzi. Raccontate la vostra storia, il vostro disagio. Aiutateci a capire e a capirvi. Aiutateci a capire l’origine di un disagio sicuramente più grande di voi. Questo non vi eviterà la punizione, giusta e severa, che avete meritato. Ma vi aprirà la strada per ricostruire la vostra vita, per tornare da voi stessi – resi grandi e purificati da una sofferenza pari al rimorso che ora vi divora.
 
Per riappacificarvi con le vostre famiglie e, nel tempo, con la vostra città. E, a tempo debito, quando avrete fatto il vostro percorso, la vostra via crucis, siamo sicuri che anche Pino, da lassù, da persona buona qual era ed è, non mancherà di farvi l’occhiolino.
 
Forza. Una via d’uscita c’è sempre. Alzate quella mano e fate quel numero di telefono a tre sole cifre.
mario albrizio