Addio a un amico

I funerali non fanno per me. Sono tra quelli che preferiscono ricordare i vivi. E specialmente non amo il rito delle condoglianze. Ma questa volta è diverso. Bisogna, esserci. 

Pino lo ricorderò comunque, per sempre, vivo e gioviale dietro il suo bancone. A fare (bene) il suo lavoro. A rifilarti ogni tipo di cosa imprevista con il semplice incanto delle parole e del sorriso. 


Passeranno alla storia i piccoli nodini che infilava nella stessa busta della mozzarella o della ricottina, e che, con sagacia degna di David Ogilvy, il padre della pubblicità, aveva ribattezzato “nodini della fortuna“. Così non ti stava semplicemente vendendo una cosa in più: ti regalava un po’ di fortuna. E c’è una bella differenza. Bisognerebbe mettere su
una scuola di avviamento al commercio e intitolarla a lui.

Quasi mezzogiorno. La piazza è assolata ma la facciata della cattedrale ombreggia le decine di manifestini funebri – cordoglio, solidarietà, in bella parata sull’ingresso alla sinistra di chi entra. 


La chiesa è bellissima, come sempre. Ma oggi di più. È più intima, nonostante sia aperta e in composto viavai di gente. Sembra di entrare in un gioiello sacro. Intendo dire: qualcosa che è appeso al collo di Dio. 

Giro gli occhi intorno e mi sembra magnifica in ogni dettaglio, la navata, i cristalli trasparenti che lasciano intravedere i tesori sotterranei dell’ipogeo – proprio come un gioiello deve fare; persino le iscrizioni e le effigie lapidarie vescovili, che di solito non mi smuovono, oggi mi sembrano in gran spolvero. Finanche le sedie aggiunte a lato dei banchi, con quell’aria da bar all’aperto – e sulle quali in altri tempi avrei forse ironizzato. Tutto sembra perfettamente al suo posto, preciso, adeguato.


In fondo, vicino al ciborio, nella zona dell’altare, la piccola folla di chi è venuto a salutare e a rendere omaggio. Vito, il suocero (e secondo padre: Pino non aveva più da tempo i genitori), sembra uscito dalla mano di uno stilista. Perfettamente in tiro, nel suo completo giacca e cravatta blunotte, camicia celeste, gli occhi umidi ma ancora la forza di un lieve sorriso. 


L’uomo che demolisce e costruisce muri con la stessa facilità con cui io batto sulla tastiera per scrivere questo pezzo è così, un uomo d’altri tempi, di una generazione che scompare – un lavoratore instancabile che alla domenica mette il vestito buono. Alla domenica e nei giorni importanti; e questo, purtroppo, è importantissimo. 

Glielo si legge nel pensiero: gli sembrerebbe di mancare di rispetto al genero/figlio, se fosse appena meno che perfetto. E poi gli serve per tenersi su. È un ex bersagliere, e ancora corre alle parate dell’associazione. Deve mostrarsi forte.

Lo abbraccio senza dire niente. Che cosa c’è da dire ancora?

Dietro la colonna sua moglie, in lacrime, e sua figlia, la moglie di Pino, la signora Lucia. Distrutta. Arriva un ragazzino paffutello vezzeggiato da tutti. Mia moglie, già sul sentiero delle lacrime, mi dice con la voce rotta: “vedi? non ha lo stesso viso del padre?”


Non lo so. Io lo vedo di spalle. Ma da come tutti lo accarezzano si capisce benissimo chi è. È da oggi il figlio di tutti noi. Con la sua sorellina. E sperabilmente con tutti i bambini che vivono situazioni simili. Che le istituzioni e i cittadini non li abbandonino, anche quando i riflettori saranno spenti.

La bara di Pino è di legno chiaro. La sua foto da giovane, ancora magro e con tanti capelli. Forse un ritaglio dalla foto di matrimonio. Sul coperchio lucido il suo cappellino da lavoro e il grembiule arancione. La sua divisa. La sua identità sociale. Il suo orgoglio. E intorno un oceano di fiori, a mazzi, a bouquet, a composizioni, di ogni foggia  e colore, nostrani ed esotici, nel disperato tentativo di arginare il magone con la vivacità cromatica, rafforzata dall’altare illuminato e dal bouquet di luce che filtra dal portale spalancato.


Fino a sfiorare i banchi disposti lato del ciborio, gli stessi – penso – dove nei secoli si è forse seduto il Capitolo, la direzione della chiesa locale. 


E per la prima volta, da laico, me li immagino come uomini che, nelle circostanze secolari, hanno provato prima a guidare la comunità e solo secondariamente a lacerarsi per il potere
Guidatori imperfetti ma devoti di questa strana nave fatta di navate e – nel tempo – piena di anime come un transatlantico di passeggeri. È una tenerezza di cui mi sorprendo. Chissà, forse sta arrivando una conversione… O più semplicemente il senso critico è ammorbidito dal dolore.

Ai piedi della bara, attaccato alla buona, un messaggio straziante e disperato a firma della moglie (“il tuo unico amore“) e dei bambini. Poche righe di un pennarello verdazzurro su un semplice foglio bianco. Le cose importanti si scrivono sempre su mezzi raccogliticci.


Usciamo con la gola che è tutta un grumo. Fingiamo di padroneggiarci ma le poche parole che ci scambiamo sono tutte spezzate. Metto gli occhialini neri di protezione (ma non dal sole) e andiamo.


Fuori nel sagrato un bambino ancora inconsapevole (forse la protezione che Dio da ai fanciulli; forse il desiderio infantile di dimostrare a se stesso e alla mamma che è già grande a 9 anni, e che si potrà contare su di lui) si muove con disinvoltura, raccoglie manifestini funebri caduti e li rimette a posto.


Da sotto il cappellino spunta un viso paffutello, simpatico e rotondo. Sì. Tutto suo padre.

mario albrizio