Condannati al Paradiso

(L’importante è festeggiare)




Sicuramente sarà colpa mia, che sono da sempre allergico ai festeggiamenti e alle liturgie.

Ma mi pare che in questo 150° si sia davvero passato il segno. Non solo perché, come al solito, non capisco che cosa ci sia da festeggiare. Ma proprio perché è chiarissimo che da festeggiare non c’è proprio niente.


Eppure, nella mentalità di certi politici e non solo; della così detta classe dirigente – sembra che i festeggiamenti abbiano di per sé valore, come un unguento taumaturgico

o più verosimilmente un rito voodoo.

E dagli con le bandiere e le fanfare. Dagli col napoletano Napolitano che plaude (tanto per cambiare) alla pomposa scenografia unitaria declamandone la partecipazione nonché la fantasia e i colori. Dice proprio così fantasia e colori: che altro aggiungere? Ci mancava soltanto che citasse il Vesuvio e il mandolino.


Ma l’ha visto, Presidente, in che stato è la Sua città? Ha visto in che stato è la Nazione di cui Lei rappresenta l’Unità?


Una Nazione in mano alle mafie per un quarto del territorio, e per la quasi totalità in mano alla mafiosità diffusa aspecifica che va sotto il nome di clientelismo, di corruzione, di appropriazione indebita e selvaggia, di continuo vilipendio della cosa pubblica.


Uno Stato nel cui Parlamento importanti forze politiche non solo inneggiano al separatismo (il che sarebbe democraticamente nel loro diritto – se non fosse palesemente incostituzionale a norma dell’art. 5) ma insultano e offendono ogni giorno, in mille modi, la bandiera e la stessa Unità del Paese che Lei rappresenta (e che tra l’altro lussuosamente li mantiene).


Un Paese che ha perso la sua piena sovranità con la Seconda Guerra Mondiale (e bisognerebbe che ai nostalgici del Ventennio – specie ai più giovani e più facilmente plagiabili – venga fatta studiare un po’ di Storia) e che da allora paga il prezzo di una classe dirigente il cui primo imperativo è di non dispiacere, e possibilmente servire, i vincitori-padroni di quel conflitto.



Gemelli diversi

Siamo un Paese che si è unificato negli stessi anni della Germania (grosso modo tra il 1860 e il 1870 circa), partendo da posizioni molto simili (precedente divisione in molti piccoli Stati) ma raggiungendo esiti completamente diversi.

Questo perché l’Unità tedesca è stata raggiunta attraverso un grande accordo tra quegli Staterelli, e con le altre forze sociali (l’industria, la finanza, la Chiesa), dando così origine ad un grande Stato Federale, che ha saputo mettere insieme le diversità, arricchirsi delle varietà, ed amalgamarle in un progetto comune vincente – capace di resistere persino al  nazismo e alla sua disfatta, così come alla lunga occupazione sovietica.


La Germania resiste e vince perché è costruita bene.



L’Italia dei Savoia

Ben diverso il processo che ha condotto a questa Italia. Un’Italia costruita sull’inganno, sulla menzogna sistematica, sulla guerra civile perpetua, sullo sfruttamento sistematico  del Sud – contrabbandato per “sviluppo” e assistenzialismo. Un’Italia senza respiro e, nonostante la sua Storia, la sua Cultura, la sua antica Ars Politica e la sua posizione geo-strategica, senza prospettive.

Siamo un Paese costruito sulla menzogna. La menzogna della Unità per mascherare una brutale occupazione militare, consolidatasi nel tempo in una ancor più brutale occupazione politica, con la sistematica selezione di una classe dirigente meridionale mediocre e asservita il cui unico imperativo categorico era ed è di essere obbediente e funzionale agli interessi dei vincitori piemontesi e dei loro epigoni, eredi, commensali e affini.


Vincitori piccoli, gretti, la cui unica priorità era pagare i debiti con i grandi finanzieri internazionali* e salvarsi così il sedere, pardon, l’onore. Se onore c’è nel piantarsi parassitariamente su un popolo e succhiargli il sangue fino allo sfinimento.

La Prima Guerra Mondiale
Poi è arrivata la Prima Guerra Mondiale e il Paese ha scricchiolato. Grandi proclami, tonnellate di retorica, le solite parate e bandiere; ma un esercito male armato, male organizzato e peggio comandato (ricordate? la selezione della classe dirigente? ovviamente vale anche per i generali). 

Abbiamo “vinto” ma solo sulla carta. E’ stato più un pareggio, pagato a carissimo prezzo con 651.000 morti e quasi un milione di feriti. Poveri cristi strappati alla terra e alla famiglia per essere immolati su un fronte di cui ignoravano persino l’esistenza, in nome di interessi che neanche immaginavano, coperti come sempre dagli alti ideali della Patria.


Abbiamo vinto, ma mostrando la nostra debolezza. E di conseguenza siamo stati trattati dai nostri “Alleati” franco-anglo-americani come zavorra. E quasi puniti più che premiati alla grande spartitoria di Versailles del 1919.

La Seconda Guerra Mondiale
Così al secondo giro, nel 1940, pur tra molte perplessità, abbiamo deciso di passare al nemico, alleandoci proprio con i Tedeschi. Un errore imperdonabile, ma comprensibile dati i precedenti. 

D’altra parte, la situazione non sarebbe cambiata di un millimetro se ci fossimo alleati agli Inglesi. 


Perché nel frattempo la nostra debolezza militare (specchio della debolezza sociale e civile), se possibile, è ancora cresciuta; esattamente di quanto è cresciuta, nel campo politico, la retorica e la prosopopea vanagloriosamente militarista di Mussolini e dei suoi vuoti gerarchi.


Giocatori d’azzardo a cui viene affidato il destino di un intero popolo. Sulla base di cosa? Di manganello e olio di ricino? Qual era il piano? Rapire Churchill e farlo cantare? Perché c’è una bella differenza tra bastonare i dissidenti o farli ammazzare selvaggiamente, come con Matteotti; e sfidare le grandi potenze dominanti del mondo.


Bisognerebbe come minimo che nel frattempo si sia lavorato alacremente per ristrutturare non solo l’Esercito, ma lo Stato, di cui quell’Esercito è inevitabilmente espressione. 


Invece noi ci siamo armati di mascella e di espressioni pettorute al balcone di Palazzo Venezia – mentre sul terreno sfilavano carri armati poco più grandi di scatole di sardine e in cielo sfrecciavano i vecchi biplani Macchi della Prima Guerra Mondiale. Ma che importa? L’importante è sfilare e festeggiare…


Machiavelli insegna che non bisogna mai fare la guerra ad uno Stato molto più forte, perché la si perde. Ma non bisogna neanche allearcisi, perché anche se si vince si resterà suoi schiavi.


Invece noi siamo riusciti nell’impresa di schierarci prima contro i potenti e poi contro gli sfidanti dei potenti, di nuovo accanto ai potenti, ma più deboli di prima e dopo averle prese. Un capolavoro.


Così finisce la Seconda guerra mondiale. Nel caos e nel disonore. Con la bandiera tenuta alta solo dalle centinaia di migliaia di soldati che hanno fatto il loro dovere, comunque sia, nelle condizioni più difficili al mondo, spesso senz’armi, quasi sempre senza equipaggiamento adeguato, sempre senza adeguato comando. 


Un’immensa Cefalonia durata 4 anni. Con i soliti ragazzi e meno giovani a fare da martiri. Ne muoiono 313 mila (più 130.000 civili).


Non prima però di essere morti dentro, di aver toccato con mano l’assoluta inferiorità di combattimento (non di valore, come dice l’epigrafe di El Alamein) – la distanza incolmabile tra la vuota retorica e la dura realtà.

La Repubblica a sovranità limitata
Cacciati i Savoia e instaurata la Repubblica, l’assetto reale profondo del Paese viene sostanzialmente conservato. Tutte le risorse a servizio del Nord industrializzato. Ma tutto il Paese, Nord compreso, a servizio dei vincitori.

Niente di che. Normale processo storico, ahinoi.


Ma con conseguenze devastanti sula vita, sulla dignità, sulle libertà e sulle prospettive del Paese. La Grande Menzogna dell’Unità si raddoppia, si articola, diventa internazionale.


Il Sud viene di nuovo “liberato”. Praticamente una condanna al Paradiso. Non riusciamo a farci occupare che subito ci liberano…

Se ci liberano ancora un’altra volta, non avremo neanche più gli occhi per piangere.

Ma tutto il Paese, ora anch’esso liberato, stride


Ovunque i cittadini pagano il prezzo di questa sudditanza resa crassa e volgare dal benessere economico, ma che non manca di manifestarsi nei momenti drammatici in cui il Paese esamina (nella sua formale libertà) diverse alternative per il suo sviluppo, e viene immancabilmente fermato a suon di bombe e attentati, fino a Moro e oltre.


Tutto il Paese soffre. Dilaniato dalle mafie e dalle leghe. Dall’immoralità e dalla corruzione. Con la classe dirigente più debole, impresentabile e squalificata della sua Storia. 


Più che una classe dirigente, una fidata guarnigione lasciata dai vincitori a presidio del Paese liberato. Un Paese che ha un urgente e disperato bisogno di una democrazia vera.


E in tutto questo un Sud che, su ogni versante, paga prezzo doppio o triplo, al punto che a volte ci si chiede come faccia ancora, pur sconocchiandosi sulle ginocchia, a stare in qualche modo in piedi.

Il Paese tagliato fuori
Mentre il Paese senza guida fluttua nella tempesta della “crisi” internazionale. Con la democrazia già imperfetta, oggi comatosa e commissariata dai “tecnici”. 

Mentre il lavoro si esaurisce e si moltiplicano la povertà e i privilegi, da sempre indicatori simmetrici del sottosviluppo


Mentre chi  insulta la bandiera viene corteggiato e chi regge il peso da 150 anni, il Sud, viene tagliato fuori persino dai collegamenti ferroviari.


Mentre la classe (se così si può chiamare) dirigente meridionale cade sulle spigole e le cozze, sugli appalti o sulla sanità o sullo stupro del territorio. Destra o sinistra. 


Mentre aumentano i consigli comunali sciolti per mafia e la ‘ndrangheta fa tristemente parlare della sua conquista del Nord. 


L’inevitabile epilogo di 150 anni di menzogne, di patti e governi sotterranei, di logge e corruttele, di familismo mafioso e di politica carnale (quando non carnascialesca), di appropriazione sistematica in spregio a tutte le leggi e le regole del vivere civile.


Mentre l’intero quadro mondiale traballa, giunto a un cambiamento epocale. Mentre da questa parte del mondo tutti siamo schiacciati tra la potenza cieca e ottusa dell’euro e l’impotenza tragica o collusa della politica.


Ma che diavolo c’è da festeggiare, Presidente? Ci sarebbe piuttosto da rimboccarsi le maniche.

Il Presidente ha sempre ragione
Ma via. La colpa dev’essere mia, e di quella cacchio di allergia alla retorica e ai festeggiamenti. Nonostante tutto, il Presidente ha sempre ragione. DEVE essere così. Perciò il problema dev’essere mio e solo mio.

Certo però che questo 17 marzo non aiuta. Non bastavano le celebrazioni di tutto un anno. Bisognava per forza festeggiare anche la chiusura dei festeggiamenti?


Non so a te, Lettore. Ma a me questa festa di chiusura pare che aggiunga al tragico il grottesco. Sarebbe bastata una dichiarazione ufficiale, magari a reti unificate. “La festa è finita, andate in pace: ci vediamo per i 200, se Dio vuole” o cose così.


Invece no. Bisogna “festeggiare”. Sguinzagliare legioni di sindaci e notabili vari, con le relative grancasse, fanfare e sciorinìo di bandiere.    


Il grottesco che si aggiunge al danno. Come se in casa del moribondo, dopo aver provato tutte le cure e tutte le macumbe, per gabbare la morte ci si metta tutti a ballare.


Se solo servisse…


mario albrizio
*Patrimonio degli stati pre-unitari 
Regno Delle Due Sicilie (Sud): 445,2 milioni
Regno di Piemonte:27
Toscana: 85,2
RomagnaMarche e Umbria: 55,3
Lombardia: 8,1
Parma e Piacenza:1,2
Modena:0,4
Venezia (1866): 12,7
Roma (1870): 35,3
Totale: 640,7 milioni di lire

 Una lira valeva circa 4,5 euro 


Dal libro di Giordano Bruno Guerri IL SANGUE DEL SUD

link http://patriotibriganti.blogspot.it/2011/04/speciale-tg1-150-unita-ditalia-la.html