De Butarchia



Democrazia, diarchia, anarchia, burocrazia, oligarchia. Infine la butarchia. La butarchia è la nuovissima e contemporanea forma di non governo delle autonomie locali e sovracomunali, rectius la forma di amministrazione delle comunità locali e sovralocali che poggia su basi molto fragili, direi sulla non consapevolezza, sul rinvio, sulla proroga, sull’attacco sistematico
alle persone, sulla strumentalizzazione delle vicende a scopo di vendetta personale. 

Tuttavia la butarchia, per quanto attualmente in auge, è un sistema primordiale, direi barbaro. Nel sistema butarchico rivive la vetusta diade amico-nemico, muore la dialettica, rialza il capo il soliloquio, il monologo, che è la morte della saggezza e del silenzio rigeneratore. 


La butarchia è una cartiera. Produce montagne, fiumi di carte. La butarchia è una inondazione di parole vuote di senso e di efficacia. Perché le parole non sono suoni o vocalizzazioni, ma la forma vocale anticipatoria dei fatti. Le parole anticipano i fatti, li spiegano, consentono di visualizzarli. 

Ora, poiché deliberazioni, determinazioni, interpellanze, interrogazioni vanno adeguatamente motivate, i cultori della butarchia ritengono che più parole si usano più motivata sia la motivazione.


Così ovviamente non è.  Le parole, quando non esprimono verità o verosimiglianze, sono cortine fumogene. Come sempre – e come ormai di rado accade – contano i fatti, perché l’arte di governo è l’arte del fare, come sosteneva De Gasperi, ma non secondo le accezioni e le applicazioni pansessualiste berlusconiane e di personaggi politici locali che, pur rottamati, continuano a ritenersi copernicanamente il centro dell’universo politico locale.  

Anzi, proprio perché sono dei brontosauri, sono tuttora persuasi che sia valido, contro ogni evidenza, il sistema geocentrico (detto anche aristotelico-tolemaico), per cui loro sono la Terra come centro dell’universo. La terra, non il sole; il materialismo pratico, non la visione spirituale della politica. 

Teorici aristotelici, credono che la maggior parte degli esseri umani siano schiavi o uomini che si occupano di questioni materiali. Ma la loro attitudine filosofica, che li renderebbe uomini, è terra terra, si risolve in due domande: cosa posso ricavare dalla manipolazione della politica

In quanto membro della classe butarchica, cosa posso ottenere per me dalla strumentalizzazione degli altri, più butarchioni di me

Queste le domande filosofiche fondamentali del butarca che non vuole passare, andar via, dedicarsi ad altro, sgombrare il terreno dalla sua presenza affinché possa essere bonificato.

Nel sistema butarchico, assunta una parvenza di decisione, si sceglie di non darle seguito. Il ristagno delle decisioni genera intoppi, immobilismo e paralisi. Bisognerebbe chiamare un idraulico specializzato, cioè un tecnico (commissario) o uno psicoanalista dell’inconscio amministrativo, il quale porti alla luce e rimuova otturazioni, nevrosi e paure paralizzanti. 

Che cosa impedisce di cambiare la forma mentis? È un pauroso deficit culturale ed umano? Che cosa ostacola che si dia la coerenza fra enunciati e realizzazioni? A Ruvo c’è un’ associazione benemerita che si chiama Tra il Dire e il Fare. Conosco uno dei suoi animatori, Tommaso Scarimbolo, un simpaticone. Ora, chiediamo all’arte, al teatro, alla poesia, alla letteratura di spiegare l’arcano? Chiediamo a Ruvo libera di indagare a fondo sulle ragioni della crisi?      

Io ci sto, lo farei, perché in quei contesti si produce sostanza, si fa della creatività il fulcro dell’essere, caratteristica che è in antitesi al sistema butarchico, che anzi la teme molto.



Quindi, chi è il butarca? Come possiamo definire il butarchione, italianizzazione del termine dialettale butarchiaun (lo scrivo come lo pronuncio)? È uno sprovveduto, un sempliciotto, una specie di re Mida che riduce semplicisticamente ogni questione al nulla. 

Tutto ciò che tocca si cristallizza, si burocratizza, si perde.

Fra simulazioni e dissimulazioni butarchiche non c’è il mare, ma solo la confusione e, nel clima di confusione, il piccolo cabotaggio, l’affarucolo, il piccolo piacere, la puttanata, per usare un termine meno aulico.
Lo snellimento delle procedure si converte nel suo opposto, paradossalmente e senza che nessuno faccia niente per impedirlo. Della serie “finché la barca va, lasciala andare”.

Il butarca è quindi una specie di Gattopardo, che tutto cambia senza mutare nulla. È uno che ama lamentarsi molto. È uno che ha la testa vuota sette giorni su sette. È uno che rinvia sine die, sperando che nel frattempo qualcosa cambi per opera del Caso o per intervento del Fato, notoriamente cieco e capriccioso. 

Ma è anche uno che si dà molto da fare, uno stakanovista delle cause perse o inutili o insipide. Il butarca o la butarca sono estremamente giudicanti ed offensivi perché non seguono una disciplina etica, o meglio se ne fanno paravento all’occorrenza, in prevalenza durante le campagne elettorali. 

Sono furbi, direte, non butarchi! No, e sapete perché? Perché la scissione è talmente palese che la si legge sui loro volti. In fondo, la butarchia si è talmente radicata nelle loro anime che non è possibile nasconderla. Semplicemente si manifesta. È una sorta di epifania della insipienza che strappa un sorriso o una crassa risata.  

È superfluo aggiungere che la classe politica butarchica fa danni enormi. Opera per la destrutturazione della vita politica ed amministrativa di una comunità. E, si badi bene, non sto parlando di Ruvo di Puglia, ma di ciò che accade dappertutto, al Nord come al Sud. Da una butarchiata all’altra, si smarrisce il senso dello stare insieme, dell’essere comunità. Si sfibra il tessuto connettivo fra persona e persona. Si lascia che una comunità si areni su qualche scoglio, come la Costa Concordia. E che si metta in salvo chi può, il più veloce, il più dotato, il meglio ammanicato, il più ricco.

Un “vabbuò” schettiniano sale dal cuore del sistema butarchico e lo definisce come meglio e più sinteticamente non si potrebbe.

 

Salvatore Bernocco