L’Europa incagliata su Maastricht

Un bel giorno un gruppo di signori attempati, i leaders dell’Europa “libera”, si vedono a Maastricht per decidere il da farsi. È il 7 febbraio 1992.

Appena 10 giorni prima dell’inizio di Tangentopoli/Mani Pulite. Che porterà alla sostanziale decapitazione della classe dirigente italiana, lasciando il Paese di fatto senza guida ed esposto come mai alle influenze più disparate. 

La seconda decapitazione, dopo la cacciata dei Savoia nel dopoguerra, al tempo in cui la stessa classe dirigente europea fu in larga parte decapitata e sostituita con dirigenze molto più in linea con le esigenze “democratiche” dell’Occidente o con quelle “comuniste” dell’Est.

E questo Paese, una volta Bello, due volte decapitato, ha finito per diventare una nave senza nocchiero, anche quando qualcuno ne ha indossato la divisa. La politica italiana è finita con Moro. Dopo c’è la rissa, la commedia, la tragedia, la farsa e il vaudeville, a seconda degli interpreti. Ma sempre rappresentazione.


Epperò tutto questo i signori di Maastricht non possono neppure immaginarlo. Non sanno ancora che neanche vent’anni dopo, nella parte di nave senza timone nella tempesta ci sarà una nave ben più grande, l’Europa, con tutti loro (e tutti noi) a bordo.


Alcuni tra loro, in quel lontanissimo 1992, sono ancora abbastanza in forma. Altri se la cavano in qualche modo. Una terza categoria è in ciccia, sudore e canottiera, ma ha da qualche parte il vestito buono e forse può ancora entrarci dentro. O almeno lo spera.


Oggetto della discussione: sopravvivere al cambiamento. Ovviamente, senza cambiare.


Finora tutti loro hanno vissuto in una specie di città protetta. Una fortezza eretta, mantenuta e pagata, e soprattutto gestita, perlopiù dai “protettori” americani, contro la minaccia sovietica.


Nel 1992  la minaccia non c’è più. E neanche l’Unione sovietica. Perciò i protettori ridiventano concorrenti, e ben presto punteranno a diventare padroni.


Perché anche loro devono reggere la concorrenza dei ruggenti giovanotti dell’Est. Gli “emergenti”. Civiltà a volte millenarie, travolte dalla febbre occidentale, che hanno studiato, copiato, imparato, fatto soldi e ora sono pronte a dare l’assalto alla Fortezza del Benessere, cominciando dal suo ventre molle: l’Europa.


Così quei vecchi signori decisero: avrebbero messo in comunicazione i loro patrimoni in un unico mercato, per diventare più grandi e resistere meglio alla concorrenza. Ma senza mettere insieme tutto il resto e, come sempre accade per i patrimoni, badando a non confondere il mio col tuo.


Tra loro, quelli più in forma e più ricchi si fregavano le mani: avrebbero usato gli altri come massa critica. Si sarebbero arricchiti a spese loro e li avrebbero trattati dall’alto in basso. Ma soprattutto avrebbero potuto difendersi dalla concorrenza dei bestioni economici di dimensioni continentali.


Quelli in forma così così si fregavano le mani: avrebbero partecipato alla mensa dei ricchi e alleandosi con loro avrebbero sfruttato meglio quelli meno in forma, e tutti insieme il resto del mondo.


Quelli meno in forma e più in trippa (non lo sapevano, ma era trippa per gli altri…) si fregavano le mani: sarebbero sempre stati in seconda fila, ma pur sempre nella squadra vincente, la più ricca del mondo. Qualche briciola sarebbe arrivata anche a loro, e le foto ricordo coi potenti li avrebbero aiutati a conservare il potere e la poltrona in patria.


A Maastricht tutti si fregavano le mani. Come si fa sempre, prima di essere fregati.



La Bella senz’Anima


Niente Difesa comune. Niente unione politica. Niente partecipazione reale ai cittadini. Solo: mettere al sicuro i soldi. E sì, magari una parvenza di inconcludente “democrazia”.


Un’Europa etnica e tribale, per quanto si tratti di tribù/nazioni “nobili” e antiche, ciascuna con alle spalle una storia di imperi.


Un’Europa di contabili. Al massimo di economisti. Più a fondo, un’Europa di portafogli. Senza scheletro. Senza cervello. Senza visione comune. Senz’anima. Più albergo di mezzane che casa comune. Giocavano a ri-diventare grandi, e si sono costruiti (e hanno costruito per noi) un destino da prede: ricche, grasse, succulente e indifese vittime predestinate.


Si decidono i coefficienti di conversione monetaria per il futuro Euro, che sarà adottato dieci anni dopo. E si decide che tutti viaggeranno a non più del 3% di deficit annuo e non più del 60% nel rapporto debito/Pil.

Nessun padre. Nessuna madre. Nessuno che guardi con responsabilità alla “famiglia”, cioè al mondo, accetterebbe un sistema così rigido, un’oscillazione del 3% che è un po’ come se nella nostra, di famiglia, decidessimo che le scarpe ai bambini le possiamo cambiare ogni cinque anni, e uno alla volta.


E infatti quelle regole nessuno  le ha seguite. Neanche i più ricchi. Semplicemente perché sono fuori dal mondo, e, diciamolo, il mondo se ne infischia.

Insomma si decide (sulla carta) che tutti dovranno fare dieta e palestra e correre al passo dei più ricchi. Così. Come se il resto del mondo non esistesse. Come se un club di ereditiere, perlopiù anziane e vedove, timorose per il proprio patrimonio, decidessero di non spendere più di tanto e di non dare confidenza agli estranei. E che questo basti a tener lontani i malintenzionati.


C’era già allora il tristo “rigore” oggi tanto di moda (a parole, e sempre per gli altri). 


Ma dov’è la visione? Dove gli obbiettivi strategici? Dove lo sviluppo? Dove un’idea di umanità emancipata, di futuro liberato – dove l’integrazione con gli altri sistemi concorrenti – assolutamente necessaria per mantenere la pace?

Ci hanno riempito la testa con l’Europa e noi ci abbiamo creduto. Anche perché era una facile e attraente via di fuga rispetto alle sempre più squallide politiche nazionali. 


Ma c’è qualcuno, uno solo, che sappia dire qual è il significato di essere europei, oggi? Qual è il suo “valore”? Posto che difendere la ricchezza che si aveva, che in parte si ha ancora, NON è un valore e, come la Storia insegna, NON basta a raggiungere l’obbiettivo e ad evitare di essere travolti?


Il Mostro di Maastricht.

Questo “progetto”, questo aborto di unione, questo mostro di Maastricht, viene oggi messo alla prova. E inevitabilmente non regge. La Fortezza Europa è una nave gigantesca che balla in preda a venti tempestosi, spinta da onde ancora più gigantesche e tutt’altro che neutre, ma cattive. Perché quel mare non è naturale: è fin troppo umano. Voluto. Mirato.

Non appena la nave/fortezza si raddrizza un po’, ecco qualcuno che annuncia una nuova tempesta; che urla che non è servito, che bisogna fare di più, che forse nulla servirà. Le famigerate agenzie di rating. E i loro servi sparsi ovunque.


E riprendono le ondate, metodiche, possenti, ritmiche. Irose e spietate. L’Europa paga il suo conto.


La sua libertà pagata (col denaro e col sangue) da altri. La sua civiltà conferenziera. La sua dignità ridotta ad obbedienza, in cambio di vantaggi per la pancia. La sua scarsa mobilità, mentre gli altri sono in pieno turbinìo. La sua struttura sociale rigida, spacciata per civiltà quando serve solo a legittimare la nascita e il privilegio. A danno di tutti. Privilegiati compresi: perché il privilegio non serve, quando sei sulla nave che affonda.


L’Europa è una corazzata alla deriva, incagliata come la Costa Concordia. Solo che qui non c’è neanche un comandante mediocre, e neanche uno pessimo. La nave è sempre stata senza comando. Gestita dagli ufficiali “nazionali” che hanno avuto pochi problemi a condividere la rotta quando c’era bonaccia, e che ora litigano su come affrontare la tempesta, aggiungendo danno al danno.

La tempesta.

L’attacco è studiato. “Scientifico”. Prima gli anelli deboli. Per dividere gli avversari e saggiare la loro capacità di reazione. Obbiettivo centrato:  la Merkel che dice per mesi: la Grecia? Saranno mica problemi nostri


Incapacità o desiderio di sfruttare la “crisi” per dominare ancora di più sui membri deboli della UE? Chissà.

Poi l’attacco ai membri di fascia media, la Spagna, e medio-alta, l’Italia. Obiettivo centrato


Con la Merkel e Sarkozy che si producono in quell’orribile show da avanspettacolo sull’ormai “sconfitto” Berlusconi. Governanti (tutti e tre) men che mediocri. Chissà che l’avanspettacolo non fosse la loro vera vocazione.

 
 

Oggi sotto attacco è la Francia, che perde la famigerata tripla A. Nessuno ha pensato a difendersi dalle insidiose centrali di tiro, a vantaggio degli avversari, che sono le agenzie di rating. Nessuno dei governanti, almeno. Nessuno le ha combattute quando c’era bonaccia, e la loro scure si abbatteva su Paesi “altri”, da cui evidentemente anche i nostri traevano vantaggi.

La Cina sì, ha messo su la sua agenzia. L’Europa no.


Nessuno a Bruxelles ha avuto quel minimo di preveggenza (e di indipendenza) per capire che prima o poi avrebbero preso di mira noi. E così nessuno ha fatto nulla. Per ignavia, interesse o complicità. 


Così che oggi siamo lì a invocare l’indulgenza delle agenzie di rating con la stessa logica (e le stesse possibilità di riuscita) con cui in un film di terza serie lo sconfitto implora la pietà del suo carnefice.

Con l’attacco alla Francia, anche la coppia di fascia alta è stata scissa, e il tandem di testa, diviso. Obiettivo raggiunto ancora una volta.


Solo la Germania è salva, per ora. E di sicuro una parte della sua classe dirigente accarezza il sogno di un’Europa addomesticata, in ginocchio, che gli venga servita su un piatto d’argento dalla “crisi”. Sarà la loro ultima illusione. E la nostra.


Di noi che siamo tutti su quella nave. Con la carena squarciata dagli scogli. Senza neanche uno Schettino con cui prendersela. E, soprattutto, senza un De Falco che provi almeno a rimediare alla tragedia.

Il prossimo passo potrebbe essere questo: chiedere il De Falco comunitario, il Salvatore della patria europea.

In questo abbiamo una grande storia. Un’antica tradizione. Alla quale si aggiunge l’altra antichissima tradizione non solo europea. Scegliere un rimedio peggiore del male.


L’abbiamo fatto con Hitler, con Stalin, con Mussolini e in un’infinità di altre occasioni. Quando anche i “grandi” saranno con l’acqua alla gola, lo faremo ancora. A meno che…

mario albrizio