ALDO MORO




Milano, 3 ottobre 1959. Moro pronuncia un discorso articolato (di pedagogia politica, come molti sostengono, e come furono tutti i suoi interventi) in cui ribadisce la sua concezione dello Stato, che egli definisce, con espressione ricca di implicazioni, “Stato del valore umano”, il cui servizio si rivolge “all’uomo nella sua anima universale”.

Lo Stato è un fenomeno espansivo, sostiene Moro, è cioè un fenomeno che punta a restituire o a riconoscere dignità ad ogni essere umano, tant’è che il processo democratico non potrà dirsi concluso finché un solo uomo si sentirà ai margini della società e della storia, suddito piuttosto che cittadino, oggetto di pretese e di ingiustizie piuttosto che soggetto di diritti e di corrispondenti doveri.


Se lo Stato democratico è uno Stato delle libertà e del diritto che emargina le disuguaglianze e punta all’inclusione e all’avanzamento, così che ogni uomo senta di essere persona; se lo Stato – come afferma Moro – è “non lo stato di alcuni, ma lo Stato di tutti; non la fortuna dei pochi, ma la solidarietà sociale, resa possibile dal maturare della coscienza democratica ed alimentata dalla consapevolezza del valore dell’uomo e delle ragioni preminenti della giustizia”, allora esso è un fenomeno non soltanto inclusivo ed espansivo, ma che richiede maggioranza qualificate nel senso della storia, perché la storia “cammina nel senso del riconoscimento sempre più vasto dei diritti e dei poteri a tutti gli uomini”.

Moro, che vede lontano e in profondità, ammonisce allora a non attardarsi sulle incrostazioni della storia, sulle comode quanto dannose posizioni conservatrici, ma di inaugurare, direi sempre ed ogni giorno, una nuova stagione della politica e della vita sociale, perché ci sia dialogo fra poteri e società, fra la politica ed il corpo sociale, affinché la politica sia al servizio del mondo che cambia e che cambia con l’ansia di sotterrare i privilegi e realizzare città a misura d’uomo, relazioni a misura d’uomo, nelle quali il rapporto sia fra un io ed un tu, mai fra un io ed un esso.

Moro era un rivoluzionario democratico, oggi diremmo in modo più politicamente corretto – visto che la parola rivoluzione mette paura – un progressista. Moro non era un conservatore, e lo fa intendere chiaramente quando pronuncia a Napoli, all’VIII Congresso della D.C. – siamo nel gennaio del 1962 – un discorso in cui si ravvisano in nuce le linee portanti della terza fase e direi della politica riformista e riformatrice del futuro.

Cosa dice Moro? Egli sostiene che la D.C. è un partito alieno dalla durezza, dall’estremismo, dall’odio, dall’accettazione della violenza, dall’esaltazione parossistica del prestigio della Nazione, dall’irrigidimento dei rapporti internazionali. “Queste – continua Moro” invece sono le componenti emotive, in tutte le latitudini, di una politica di destra della quale è altresì caratteristica un furioso, testardo, disperato disconoscimento della realtà delle cose, dei dati nuovi della storia umana, delle esigenze ormai irrefrenabili di dignità, di libertà, di giustizia, di progresso e di pace. Queste sono, noi pensiamo, esigenze tutte cristiane e come tali noi le facciamo nostre. In vista di questi obiettivi e sulla base di queste aspirazioni noi non abbiamo mai incontrato né crediamo di poter mai incontrare forse di destra.”

Lo dico agli amici che stanno altrove e che si definivano morotei: chi fu moroteo non può stare a destra, perché stare a destra, alle politiche come alle comunali, significa rinnegarsi, rinnegare le proprie radici culturali e finanche umane, e portare acqua al mulino dei despoti, dei ras nazionali e locali, i quali oscillano paurosamente fra l’interesse personale, il velinismo e lo scilipotismo, senza provare vergogna o turbamento. Qualcuno addirittura clona il programma delle amministrative del 2006, dimostrando oltre ogni ragionevole dubbio di avere in grande disprezzo il paese, gli elettori, il futuro di Ruvo. “Ciò che il fascismo odia sopra ogni altra cosa è l’intelligenza”, scrive Miguel de Unamuno. Il fascismo sotto ogni forma e manifestazione.

Fateci caso: Berlusconi non ha mai pronunciato il nome di Moro né si è mai recato in Via Fani o in Via Caetani o al cimitero di Torrita Tiberina, dove Moro riposa nella pace di giusti.
Vorrei dire un’ultima cosa, prima di cedere la parola ai relatori. Vorrei anzi rivolgermi a loro.

Caro Gero, grazie per aver accettato il nostro invito. Mi sovvengono tanti momenti, tante esperienze, tanti volti, da quello di mio padre a quello di Renato Dell’Andro, di Peppino Colasanto, di Francesco Anselmi e di tanti altri (in sala c’è Pinuccio Summo). Mio padre vive ancora, per fortuna, e non ti nascondo che ogni volta che c’è un servizio su Moro si commuove come si commosse quel lontano 9 maggio del 1978. Perché Moro fece moltissimo per Ruvo e perché Moro era un uomo buono, mansueto ed amico.
Stimato presidente Vendola, qualcuno avrebbe voluto che a commemorare Moro ci fosse stata altra persona questa sera, non lei.

Perché Vendola, mi è stato detto, è comunista, ed i comunisti hanno ucciso Moro. Il sillogismo non farebbe una grinza se fosse vero. Ma non lo è, sebbene – certo – non fossi d’accordo con la linea della fermezza del P.C.I., che pure aveva una sua logica, perché la vita di un uomo, di un uomo solo, è superiore alla ragione di Stato, giacché lo Stato è per l’uomo e non l’uomo per lo Stato.

Ho risposto loro che tutti noi non siamo più quelli di ieri. Siamo diversi, forse migliori, più consapevoli e maturi. In questi anni, dal 1978 ad oggi, sono caduti muri fisici, storici, psicologici, umani. Gli eredi a vario titolo delle grandi tradizioni politiche e culturali popolari sono uniti, sicché vi è la necessità di una sorta di ‘pluralismo degli uniti’, indispensabile per sconfiggere il berlusconismo ed archiviarne i disastri.

Lei è una delle punte avanzate del processo democratico e riformatore a cui molti guardano con interesse e speranza. Se anche si definisse rivoluzionario, non mi stupirei, perché c’è bisogno di una rivoluzione che parli ai cuori ed alle menti degli italiani, avvalendosi anche del linguaggio della poesia, che è la fioritura della parola.

John Kennedy scriveva che “se i politici si occupassero un po’ più di poesia e i poeti un po’ più di politica, forse si vivrebbe in un mondo migliore”.
Lei quindi può parlarci di Moro, ne ha facoltà e le qualità.

Salvatore Bernocco